Faccio sempre fatica a parlare del Paradiso. Soprattutto perché ho sempre stentato a crederci, almeno dal punto di vista, per così dire, tradizionale. Canonico, liturgico. Così come lo raccontano in molti. Che so, come una ‘gloriosa corte in cui abitano schiere celesti circondati da ineffabile luce’. No, nulla di tutto ciò.
Di contro, non riesco neanche ad immaginare che, dopo tutto quel che facciamo e che ci capita qui in terra, debba toccarci solo e semplicemente una sterile variante, ma particolarmente luminosa, del nulla. Probabilmente quel che aspetta i migliori di noi, in quello che più amabilmente è chiamato Eden, è una salubre, ed addirittura dolce via di mezzo tra le due cose. Qualcosa di assai più concreto e significativo della “gloriosa corte”, ed al contempo un attimino più spirituale d’un silente, ma illuminato, buco nero.
Forse, come cantava Celentano, si tratta d’un cavallo bianco che non suda mai. O, ancor meglio, ciò che quel cavallo rappresenta: ovvero, un luogo tangibile e radioso, ma tremendamente vero e godibile, dove le opere buone iniziate in terra possono esser portate a termine; e dove le storie non scritte o interrotte, e le speranze incompiute, possono trovare un degno seguito. Un degno finale. L’epilogo che meritavano. L’epilogo che meritano.
Chiudo gli occhi come per tuffarmici dentro, a quest’Eden misterioso. Abbasso lo sguardo per non farmi abbagliare dallo stupore, che già so che m’assalirà, appena troverò il coraggio per riaprirli.
Tentenno, esito, anche per godere fino a fondo dell’attesa, corroso come sono dalla curiosità. Conto fino a tre. Mi inganno di proposito, cincischiando sia tra l’ “1” e il “2” che tra il “2” e il “3”. Evito l’obsoleta e fastidiosa variante del “2 e mezzo”: no, quella no. Quella è roba per chi gioca a nascondino. Roba da bambini. Eppure, in questo preciso istante, proprio d’uno spensierato gruppo di bimbi sento distintamente le voci. Voci, oddio: è più un ridanciano vagito di gioia.
No, non mi distraggo mica. Sto andando a vedere come se la passa Denis in Paradiso, mica passeggiando in un parco alla spasmodica ricerca dell’omino dei gelati.
Bando agli indugi. Apro – anzi, spalanco – le palpebre, con lo stesso, spregiudicato vigore d’un tabaccaio alle prese con la saracinesca del suo negozio, alle 6 d’un gelido lunedi mattina d’inverno. E ci metto almeno una manciata di secondi, a realizzare: mi si perdonerà il paradosso, ma proprio come m’aspettavo, nulla è come m’aspettavo.
Non un fiotto di luce eterea, non una nuvoletta che porta a spasso i Santi. E neanche un angelo, a quanto pare: e se anche fosse, beh, in paradiso un angelo non sarebbe nulla di particolare. Allora, arcigno, aguzzo la vista, come se questo mio viaggio mentale non avesse un domani: ed un angelo, biondo, scanzonato e felice, che corre a perdifiato sulla battigia dietro ad un pallone, lo vedo eccome. Il mare gli fa da sfondo, ed il cielo da cornice. La sabbia bagnata dall’umidità del tramonto si traveste da culla delle candide movenze, il rumore lieve dell’acqua che si infrange sulla spiaggia da accomodante colonna sonora. Rincorre un pallone, se lo porta avanti prima con un piede e poi con l’altro. Infine lo calcia, e con lo stesso furore con cui lo colpisce lo rincorre, sudando lacrime di felicità.
Mi guardo intorno e non vedo nessuno, oltre noi due. Gli faccio dei cenni con le braccia, ma solo quando mi rendo conto di sembrare uno stupido scacciamosche più che attirare la sua attenzione, decido di darmi fiato ai polmoni almeno quanto fa lui. Che, intanto, continua a correre, seppur esausto dalla fatica.
«Denis! Denis!».
Si gira, mi guarda. Mi sorride. Ricomincio a sbracciarmi. Ed a sembrare uno che ce l’ha con le mosche.
«Denis, ciao! Mi chiamo Alfredo, sono venuto a trovarti».
Quello che mi sembrava solo un sorriso, adesso mi trasmette un improvvisato senso di prossimità e calore. Si asciuga la fronte con l’avambraccio, ricomincia a sorridere: e mi fa cenno di avvicinarmi.
«Allora, Dè? Come stai?»
«Bene. Non mi vedi? Gioco a calcio. Anzi, a pallone. Quello che facevo già. Che adoravo fare. Che avrei voluto continuare a fare».
«E lo fai pure abbastanza bene, direi. Non hai perso lo smalto, e corri ancora come un furetto».
«Diciamo che ho molto tempo per allenarmi. E dimmi…Di là, come vanno le cose?».
«Beh, in verità così così. Sai, il calcio è cambiato tanto. Anzi, tantissimo. Ed anche i calciatori sono cambiati. Adesso se non hai la cresta, una ventina di tatuaggi e non twitti le foto della tua fidanzata non ti caga nessuno».
«Ma si gioca ancora in 11?»
«Certo».
«E sempre col pallone, in calzoncini e maglietta?»
«Si».
«E meno male. Il calcio non può cambiare, è la sua semplicità e l’impareggiabile gioia che trasmette ai cuori a renderlo unico, e così amato. Forse siete voi, ad essere cambiati».
«Anche questo è vero. E non so se siamo cambiati in meglio».
«A proposito, ai miei tempi già si parlava di moviola in campo. Adesso la userete, spero».
«A dire il vero….Ancora no».
«Allora lo vedi che è come ti dicevo io? Non è proprio cambiato per niente».
Restiamo per qualche secondo in silenzio, a guardarci. Tutto diventa dapprima surreale; poi, di punto in bianco, scoppiamo a ridere e lui ricomincia a palleggiare. Lo contemplo. Lo ammiro, con gli occhi e l’intensità con cui si guarda il finale d’un film di Sergio Leone. Poi inizia a correre. Di nuovo. Che fiato. Ed io, da buon, vecchio portatore sano di panza ed incallito fumatore, mi vedo costretto a dar fondo ad ogni residuo barlume d’energia, per stargli dietro. Lo avvicino, ma arranco. Raccolgo le forze, l’ho raggiunto: lo prendo per un braccio, interrompo la sua corsa verso l’infinito.
«Ma scusa, perché mi fai queste domande? Tu non lo segui più, da qui, il calcio? Era la tua passione».
«Non era il calcio la mia vera passione. La mia passione era la vita. A me non piaceva il calcio: a me piaceva vivere. E siccome il calcio è vita, allora adoravo anche questo sport».
Salsedine. Maledetta salsedine, mi fa sentire sporco come non mai. Denis, invece, sembra neanche sudi. Sono gocce di mare, quelle che gli stagliano la fronte, ed è fresca rugiada che gli disegna piccoli ghirigori maori sulle gote. La trasparenza di quei minuscoli scrigni d’acqua, però, mi costringe a ravvedermi. Devo essere sincero fino in fondo, tanto con me quanto con lui. Non è per chiedergli come sta, in realtà, che ho intrapreso questo viaggio immaginifico. O almeno, non solo per questo. E’ allora, che inizio a sudare io. E non è né rugiada né mare.
«Denis, se sono qui è perché devo chiederti una cosa».
«Dimmi».
«Io voglio sapere come sei morto».
Mi guarda fisso nelle pupille, pare potermele penetrare con le sue: e, nel farlo, smette di palleggiare ed inevitabilmente perde di vista il pallone, che rotola libero verso il bagnasciuga. Corruccia le rughe della fronte, si mordicchia il labbro inferiore. Quello che mi lascia di stucco è che non perde mai, neanche per un istante, il sorriso. Se mi risponde, saprò come è andata davvero, quella maledetta notte di 24 anni fa. E potrò raccontarlo ai magistrati, urlarlo a squarciagola al mondo intero, scolpirlo sulle lapidi della memoria e condividerlo con tutti coloro che la aspettano.
«Dé, io devo saperlo. Noi dobbiamo saperlo, Donata deve saperlo. Anche perché se qualcuno non dice la verità, deve essere punito».
Uno dei lati della bocca gli si stira verso l’alto, e gli occhi, all’unisono, disegnano una mezzaluna la cui coda indica l’emisfero sinistro del suo cervello, laddove risiede la memoria a lungo termine. Schiude le labbra, prende il respiro. Sto per sapere. Stiamo per sapere. Un silenzio lungo quarto di secolo, come per magia, verrà cancellato dal roboante fragore della verità. Verità per Denis.
Già. Anche quest’espressione, finalmente, diverrà inutile e obsoleta, per Dio.
«Vai da Donata, vai dal babbo, vai dai ragazzi, e dì loro che sto bene. Che li amo e li amerò per sempre».
Il mare diventa ghiaccio.
«Denis, certo. Certo che lo farò. Ma io voglio sapere com’è andata. Io voglio sapere chi ti ha ammazzato».
«Questo dovete dirmelo voi. E lo state già facendo».
Un buffetto sul viso. Il pallone è ancora lì, ad una decina di metri da noi. Si volta, gli si avvicina, lo colpisce con forza: la sfera vola via talmente veloce che l’aria non fa in tempo a spostarsi, per farla passare. La spiaggia, così vuota e quieta, non fa altro che amplificare le distanze, e così, quando ricade, il piede che interrompe il suo viaggio, con una piroetta elegante e disciplinata, produce un rumore talmente soave da sembrare non uno stop ma un abbraccio.
E’ un ragazzo della nostra età, ed anche lui, proprio come Denis, indossa la maglia rossoblù. Si chiama Massimiliano. Massimiliano Catena.
Denis gli va incontro, ed il gioco del calcio ricomincia, ancora una volta. Per sempre.
Prima, però, mi saluta mentre è già lontano. Mi fa ‘ciao‘ con la mano destra, ed io, impegnato a riflettere sul fatto che quella è l’ultima volta che lo sto guardando, mi paralizzo e neanche ho la forza di ricambiare.
Le sue poche parole mi hanno rotto il respiro, formato un groppo in gola ed esploso un buco allo stomaco.
«Hai ragione tu, Dé», brontolo inebetito, con l’ultimo fiocco di voce.
Si gira per un’ultima volta, ed anche se è già distante da me centinaia di metri, per la prima volta vedo il suo sorriso attenuarsi fiocamente, e risplendere, come un faro nella notte, un brillore che gli scende sul viso.
E’ una lacrima. L’unica che ho visto, da quando sono qui. Sola e per questo ancora più bella, nel bagno di pace di chi amava la vita, e continua a farlo. Nonostante tutto.
D’altra parte, nessuno arriva in Paradiso con gli occhi completamente asciutti. Neanche Denis.
Alfredo De Vuono