Donata Bergamini, oggi, è fulgido esempio di coraggio e tenacia. E’ in attesa, insieme ad un popolo intero, quello rosoblù, di sapere la verità. La verità che la giustizia ancora, 24 anni dopo, non le (e ci) ha ancora tributato. Perché tutti meritiamo di sapere cosa accadde realmente, quella notte del 18 novembre dell’ ’89, a Denis. Un ragazzo di soli 27 anni ucciso, per motivi ancora oggi non meglio definiti, in quel di Roseto Capo Spulico.
Denis era un ragazzo schivo e poco ciarliero, ma vivace e cui la voglia di vivere non è mai mancata. Come racconta a Fantagazzetta, con la tenerezza che la contraddistingue, proprio sua sorella Donata. Una donna a cui la tenacia ed il coraggio, in quasi 24 anni di lotta contro le ingiustizie, non è certo mancata.
“Donato, Denis, per gli amici, era un ragazzo molto solare e umile, sempre con il sorriso. Il suo comportamento sempre allegro e sereno era lo specchio di un ragazzo che amava la vita, tanto è vero che, nell’intervista fatta da un giornalista di Cosenza, poco tempo prima di essere ucciso, a precisa domanda rispose: “MI PIACE VIVERE”.
Denis non si era montato la testa per la sua carriera professionale. Lo dimostrava con semplici gesti di grande valore. Quando tornava da Cosenza nei giorni di permesso si incontrava sempre con i suoi amici del paese, organizzavano serate con scherzi a non finire: ovviamente era lui l’ideatore! La sua specialità erano i “gavettoni”. Vorrei raccontare solo un episodio per fare capire come era Denis. Una sera d’estate, mentre uno di noi stava lanciando un secchio d’acqua, passò in bicicletta un signore non più giovane, che se lo prese tutto addosso! Si arrabbiò tantissimo, urlava, con l’acqua che gli scendeva da tutte le parti…Denis allora, con tutta calma e aria dispiaciuta, gli si avvicinò e disse: “lo so che si è arrabbiato perché teme che la bicicletta faccia la ruggine, ma se me la lascia gliel’asciugo…”. L’uomo, allora, lo guardò e gli disse: “bella questa!” e, sorridendo, ripartì. Non vi dico le risate…
Ogni volta che arrivava a casa, andava sempre a salutare i dirigenti, gli amici e gli ex compagni di squadra delle Società Sportive dove aveva militato. Trovava anche il tempo di scambiare alcune chiacchiere con i vicini, ma un paio di orette del suo tempo erano sacre per giocare con mia figlia Alice, allora molto piccola. Lei, che lo zio non l’ha mai dimenticato, e ancora oggi, in silenzio, insieme ai suoi fratelli che non hanno avuto la fortuna di conoscerlo, soffrono, oltre che per la perdita, per l’inganno e la beffa delle sentenze del passato”.
Un fratello amorevole, prima ancora che un professionista ammirevole, che mosse i primi passi nei campetti di periferia del ferrarese.
“Di mio fratello, da bambino, ricordo la figura esile. Sempre palla al piede, ricordo la tenerezza quando lo vedevo vicino ai suoi coetanei, sempre il più piccolo, il più magro. Sussultavo quando lo vedevo sul campo, soffrivo quando vedevo l’avversario che cercava di prendergli la palla: avevo paura che gli facessero male. Era come un moscerino in mezzo al campo. Conservo ancora oggi una foto di quando partecipò un torneo in svizzera: come si fa a non provar tenerezza per uno che a parità di età è fisicamente la metà, di statura?
Avevamo solo quindici mesi di distanza, quindi bambini entrambi, il mio ricordo come calciatore inizia solo all’età di 15-16 anni quando giocava nelle giovanili dell’Argentana, poi in prima squadra, nella stagione 82-83 quando è ceduto all’Imolese per poi la s dopo approdare in serie D con il Russi e nella stagione 85 – 86 per entrare a far parte del Cosenza, dove nella stagione 87-88 il Cosenza raggiunge la serie B, ricordo la felicità di Denis e di tutti noi per la promozione in B per la squadra dove lui giocava”.
Ma Donato era anche un atleta mirabile, ammiratissimo da compagni ed allenatori. Ed al quale le opportunità, certo, non mancavano. Qualcuno o qualcosa, però, hanno voluto non permettergli di coglierle.
“Come professionista, credo non ci sia nulla da dire da parte mia, ma sarebbe più opportuno chiedere ai Mister che hanno avuto modo di conoscerlo. Per quel che mi compete posso tranquillamente dire che era molto ligio al dovere, seguiva un alimentazione corretta, sempre presente agli allenamenti. Non ha mai disertato un ritiro: ma stranamente ha abbandonato l’ultimo. Semplicemente perché l’hanno ucciso. Come professionista? La risposta è evidente, arriva dai tifosi, quei tifosi, che da 23 anni non l’hanno mai dimenticato, e che ancora oggi invocano VERITA’ E GIUSTIZIA”.
Prima di quel sabato sera, gli orizzonti di Denis erano sterminati. C’erano alcune big che lo corteggiavano, ma anche il Cosenza che volle tenerlo, almeno per un anno ancora. Anche perché il rapporto che s’era instaurato, tra città e Bergamini, era già indissolubile.
“Denis, sin dal primo momento in cui venne a contatto con il Cosenza Calcio, è stato entusiasta di quella proposta professionale. Amava i cosentini, amava i tifosi: forse per questo la lontananza da casa non costituiva un problema. Probabilmente questo suo amore è stato percepito dalla cittadinanza cosentina, infatti molte persone oggi mi scrivono che non l’hanno dimenticato, che vogliono verità. Tanti, tantissimi lo fanno in privato. Solo da luglio ’89 aveva espresso il desiderio di salire al nord, l’anno successivo: sia per le richieste professionali di categoria superiore, sia perché il rapporto che già allora aveva intrapreso con una ragazza del nord l’aveva reso felice, e desiderava costruirsi una famiglia. Sono certa che stava vivendo il periodo migliore della sua vita, sia dal lato sentimentale, sia dal lato della carriera calcistica. Ed anche economicamente, perché quella era la prima stagione (’89/’90) in cui mio fratello aveva firmato un contratto così importante.
Sempre nell’estate ’89, nel periodo del calcio mercato, il telefono squillava in continuazione. La Fiorentina..il Parma…il Cosenza. Lui era molto indeciso: la sua preoccupazione era la paura di non essere guarito completamente dall’infortunio e non riuscire a dare il meglio di sè. Ma si sentiva anche in dovere di restare nel Cosenza, come forma di ringraziamento per come l’avevano seguito e curato nel periodo dell’infortunio”.
Alfredo De Vuono