Si dice che i veri gentiluomini siano come dei lupi molto pazienti. Entrambi, difatti, patiscono la fame per lungo tempo, bramando il loro obiettivo con fare apparentemente disamorato ma profondamente empatico, con l’eleganza tipica di chi vuole fortemente qualcosa, ma non ha intenzione alcuna di raggiungerla se non con i suoi modi compiti, la falcata algida, la postura fiera e l’innato rispetto. E con la silente attesa nel destino. Un’attesa che può durare tantissimo: anche cento anni.
Se chiedete ad un vecchietto ultracentenario quale sia stato il segreto della sua longevità, troverete probabilmente la sua risposta molto più scontata e banale di quanto possiate immaginare: vivere e sopravvivere – vi dirà – e campare ogni giorno, un giorno in più.
Perché è tutt’altro che facile sopravvivere, in un’epoca come questa, per ben un secolo. E se la cosa appare proibitiva per gli uomini, lo è altrettanto per movimenti, associazioni, aziende, ideologie.
E squadre di calcio.
Alla non certo folta schiera delle ultracentenarie del nostro calcio, da oggi, si aggrega anche il Cosenza Calcio: la squadra che, esattamente cento anni fa (era il 23 febbraio 1914) vide la luce su uno spiazzo della vecchia Piazza d’Armi, alle porte della città vecchia. La squadra, che già subodorava lo stop forzato imposto dal conflitto mondiale, si chiamava Fortitudo ed aveva, come colore sociale, il verde. Per rendere omaggio ai floridi boschi della Sila che – proprio come i lupi – vigilano, sornioni, dall’alto delle irti vette dell’appennino verso il centro urbano.
Il Cosenza Calcio che, invece, cromaticamente oggi i tifosi e gli appassionati conoscono, nascerà qualche anno dopo. In onore al Genoa 1893, difatti, si abbandonò il verde a favore degli attuali rosso e blu: il primo campionato della storia, però, i lupi lo giocheranno solo nel 1929, in 2a divisione. Là dove milita ancora oggi, nelle viscere del proletario calcio di provincia che così tante e fulgide storie ha regalato, anche al pallone dei grandi.
Un pallone dei grandi chiamato Serie A che, in verità, il Cosenza non ha mai assaggiato. L’ha sognato, sfiorato, bramato, accarezzato, e più d’una volta: ma senza mai riuscire a giocarci.
E’ caduto decine di volte, nella sua storia, il Cosenza Calcio. A dimostrazione di come, soprattutto i centenari, debbano giocoforza imparare a sopravvivere a sé stessi ogni giorno, un giorno di più; ogni anno, un anno di più; ogni stagione, una stagione di più.
La prima Serie B arriva poco dopo la Seconda Guerra Mondiale. Dura poco, e dà avvio ad un liturgico peregrinare tra la C ed oltre. Negli anni ’60 il secondo passaggio in cadetteria, e la creazione del nuovo stadio di casa, il San Vito. Un impianto che, oggi, 50 anni esatti dopo, conta quasi 28mila posti – un’enormità, considerata l’epico ottovolante di categoria dei custodi dello scrigno – e che, extracalcisticamente parlando, ha visto bagnarsi il verde prato dalla mirabile rugiada di musica e poesia di autori del calibro di Sting, Bob Dylan ed i Deep Purple.
Per l’affamato ritorno in B servirà attendere quasi un quarto di secolo. Il miracolo lo farà Gianni Di Marzio, nel 1988, alla guida della squadra ancora oggi più amata della storia rossoblu. L’anno successivo è quello che narra la storia, assurda, d’una matricola terribile pronta sì a spezzare le catene con sinfonica rabbia, ma anche a farsi spezzare le ali da un cavillo che le costa la Serie A.
Alla fine del campionato, difatti, la truppa del nuovo mister Bruno Giorgi è la squadra che vince più partite, ma chiude solo al 4º posto, ex aequo. A solo un punto dal terzo, ed alla pari di Reggina e Cremonese. Per la – famigerata, e nuova, perché appena introdotta – classifica avulsa dell’epoca, però, quella collocazione significherà solo sesta piazza, ed esclusione dagli spareggi. E con il più atroce dei crucci: con i 3 punti a vittoria (all’epoca erano ancora 2) quella squadra sarebbe stata promossa in quanto, solitaria, terza in graduatoria.
Le lacrime tornano a stagliare il viso dei tifosi nella primavera del ’92. Con Edy Reja al timone la A sfuma solo negli istanti finali d’un catartico Lecce – Cosenza. Il gol di Jimmy Maini taglia il respiro ad oltre 20 mila tifosi rossoblù, migrati in massa verso il Via del Mare in uno degli esodi calcistici ancora oggi più imponenti della storia degli sport tricolore. Ma c’è ancora tanta B nel futuro dei silani, così come tante delusioni. Come quelle del 1997, a margine d’una retrocessione che sa di fiele agrodolce, perché ridiventa orgoglio solo 12 mesi dopo, con l’ennesima promozione, stavolta portata a casa da Giuliano Sonzogni.
Il vero travaglio del Cosenza, però, deve ancora cominciare.
L’annus horribilis è il 2002-2003. Il Presidente Pagliuso viene arrestato, e la squadra prima retrocede e poi viene radiata, perché oberata dai debiti. In quel gruppo milita gente come Agliardi, Stankevicius e Morrone, tutti guidati dall’indimenticato capitan Gigi Lentini, che decide di retrocedere in D commuovendo la città e l’Italia.
E’ così che i bruzi, quindi, restano orfani del calcio, ed i ricorsi in Lega, in tal senso, servono a poco e niente. Si costituisce una nuova società che, all’esordio, nel campionato dilettanti, riesce a portare allo stadio 13 mila tifosi. Semplicemente un’assurdità, per un torneo che, nella migliore delle ipotesi, in media riesce a riempire gli stadi delle partecipanti di qualche centinaio di anime.
Ma il calore ad oltranza di chi l’ama ancora, nonostante tutto, non basta, per vincere le sue paure, al Cosenza, che s’avvia a vivere il suo decennio più buio e sconcertante.
Prima rinasce il Cosenza 1914, che gioca un paradossale e grottesco derby cittadino, nel 2004, con l’FC; poi alle redini dei club, nuovamente riunito, si susseguono personaggi improbabili che non riescono in alcun modo a tirarlo fuori dal magma di mediocrità in cui è profondamente invischiato.
Neanche i due campionati di fila vinti da Mimmo Toscano (esonerato lo scorso dicembre dalla Ternana, in B) bastano a sollevare definitivamente la polvere dal gagliardetto infangato: nel 2011 la penalizzazione, i play-out ed il nuovo fallimento sono l’ennesimo colpo al cuore pulsante d’una città che merita, evidentemente, ben altro. E che non può far altro che masticare amaro ed avviarsi, mestamente, verso il suo 98° anno calcistico di vita senza prospettiva concreta alcuna.
Se non quella legata all’amore viscerale per i suoi colori e le sue bandiere: un sentimento che, però, si nutre di solo ricordo, provocando in tanti un profondo senso di rigetto. Pur nonostante il prolungato digiuno.
Cosenza, sabato 22 febbraio 2014. le luci del centenario (photocredits: Fantagazzetta)
Sabato 22 febbraio 2014. E’ quasi mezzanotte, e si spengono le luci, cantava il poeta. Che però non teneva conto di quanto potesse esser sublime lo spettacolo d’una città intera illuminata solo dal chiarore dell’alba del centenario e dalla miriade di riflessi, esclusivamente rossi e blu, che la striano velatamente, conferendole un fascino quasi picassiano.
In giro per le strade, pur mancando ancora qualche ora all’evento, folti schiere di giovani si lasciano inebriare, oltre che dai fumi dell’alcol, anche dai cori e dal giubilo per l’evento senza pari che li attende. Dalle auto le bandiere sventolano con foga d’altri tempi, e nei dintorni dello stadio ancora rimbombano gli echi del dibattito tenutosi in tribuna B, luogo del ritrovo degli ultras cittadini e non.
Ancona, Genoa, Caserta, Venezia, Atalanta: sono tante, difatti, le squadre gemellàtesi, nel corso del secolo, con il Cosenza. Così come tanti, da sabato a lunedi, sono stati i tifosi ‘amici’ che hanno voluto, pur da lontanissimo, aggregarsi ai lupi per trascorrere insieme il genetliaco della passione, ospitati dagli stessi cosentini. Le ore, nel frattempo, si fanno piccole, così come le energie: ma bastano comunque per un ultimo coro. Magari da levare al cielo da colle Pancrazio, dove si innalza maestoso il Castello normanno-svevo: anch’esso, per l’occasione, illuminato e vestito a festa. E’ il simbolo della città dei bruzi e, di rimando, anche della sua squadra. Perché pur essendo, nel suo millennio di vita, rimaneggiato, minato da numerosi terremoti e trasformato in prigione è stato sempre ricostruito e ristrutturato dai popoli, che non potevano farne a meno. Proprio come il Cosenza Calcio.
Domenica 23 febbraio 2014. La zuccherina attesa è finita, ed il giorno arrivato. Avessero detto ad un tifoso qualunque, solo tre anni fa, che il centenario del club si sarebbe vissuto in maniera così lieta, forse, si sarebbe corso il rischio di essere internati.
Perché domenica, al San Vito, è tornato il Cosenza, e con esso è tornato il Calcio. Il nuovo club affidato ad Eugenio Guarascio è oggi non solo reduce da un ripescaggio, questa volta concesso, dopo i falliti play-off di D della scorsa stagione, ma soprattutto indiscusso protagonista nel girone B della Seconda Divisione di Lega Pro. Ad un passo – anche matematico – dalla promozione nella nascitura Lega Pro unica, fortemente voluta da Macalli. Il compleanno inizia di buon’ora e di buona lena. Ci sono i tanti ex protagonisti dell’epopea sportiva, provenienti da ogni angolo del Paese, da accogliere, e gli ultimi dettagli sceno-coreografici da limare. Alle undici di mattina il San Vito è già ubriaco di colori, e la ressa ai botteghini si fa bagno d’emozione.
In coda, agli ingressi, ci sono anche centinaia e centinaia di bambini, invitati dalla società a fare da allietante cornice al quadro che i grandi dipingeranno.
La festa comincia a mezzogiorno, quando le curve e le tribune si spalancano al popolo rossoblu che le colora e ci si riversa come fiume in piena nel suo letto. Sul campo del San Vito, intanto, inizia la kermesse.
C’è la banda che ripropone in chiave collettiva e fa cantare ancora una volta gli inni di Mario Gualtieri e Tonino Lombardi, il giro di campo delle vespa e delle lambrette d’epoca e soprattutto la narrazione, in chiave satirico-culturale della cosiddetta ‘partita della storia’. Un’originalissima piéce teatrale messa in scena sottoforma di contesa pallonara, e che trasforma in improvvisati calciatori tutti i protagonisti della storia cosentina al di fuori delle mura dello stadio: i fratelli Bandiera, Gioacchino da Fiore, re Alarico, Federico di Svevia, Bernardino Telesio, Tommaso Campanella, Duonnu Pantu e tanti altri, alla ricerca del gol eterno della città.
La ‘partita della storia’ e l’undici del secolo scelto dai cittadini (photocredits: Fantagazzetta)
C’è spazio anche per un lungo e roboante potpourri di fuochi d’artificio, così come per la consacrazione dell’amatissimo recordman di presenze e marcature rossoblu, Gigi Marulla, invitato a realizzare simbolicamente le sole, ed ultime, 9 reti che lo separano dall’epico traguardo dei 100 gol. Il suo nome, insieme ad altri 11, campeggia fiero sotto la curva nord dedicata allo sfortunatissimo e compianto Massimo Catena: in fila, compongono quella che la città ha decretato essere la formazione del centenario e che vede, nell’ordine, Gigi Simoni, Ciccio Marino, Claudio Lombardo, Gigi De Rosa, Ugo Napolitano, Alberto Aita, Gigi Lentini, Donato Bergamini, lo stesso Marulla, Alberto Urban e Michele Padovano. Alla loro guida, mister Gianni Di Marzio: l’uomo della rinascita. Molti di loro erano presenti in tribuna vip già ieri. Altri, invece, hanno raggiunto Cosenza oggi, in occasione del Gran Galà preparato per tifosi ed ex calciatori presso il Teatro Rendano.
Chi non ci sarà, ma avrebbe voluto, follemente, esserci, è Donato – detto Denis – Bergamini. Il 27enne mediano d’origine ferrarese trovato cadavere nel 1989 in circostanze ambigue ed ancora oggi al vaglio della Procura è il calciatore rossoblu a cui i tifosi sono, da ormai un quarto di secolo, più visceralmente legati. Il grosso dei cori che proviene dalla curva lo ricorda a gran voce, mergendo alla malinconia il furore per una verità – quella che invoca anche, legittimamente, la famiglia – che s’è fatta attendere per troppo tempo ma che, in quanto tale, non tarderà ad arrivare.
Il processo sulla sua morte è stato riaperto oramai da qualche anno. E proprio il 2014, l’anno del compleanno del Cosenza, sarà anche, con buona probabilità, l’anno della svolta dal punto di vista giudiziario per il caso più angoscioso dei cento anni del pallone bruzio. Denis era fortemente legato a Cosenza, tanto da decidersi, pochi mesi prima di morire, ad affrontare un anno di cadetteria in Calabria, nonostante le insistenti offerte di blasonate squadre di A (Fiorentina e Parma) che l’avevano messo nel mirino dopo un crescendo folgorante di carriera.
E’ anche per questo, oltre che per la sua sincera spontaneità, la caparbietà in campo ed il sorriso tenue, che era venerato dai tifosi. Ma chi ama profondamente, ed è così straordinariamente, di rimando, amato, non invecchia né muore mai. Ieri Bergamini, insieme all’altro angelo Massimo Catena, riusciva contemporaneamente a vegliare il San Vito dall’alto ed a percorrerne ancora una volta il campo, seppur nelle candide vesti d’un bimbo dalla fluente chioma bionda, con indosso la maglia numero ‘8’. Proprio come lui.
Così come, in tribuna, negli occhi stanchi ma sempre vigili di papà Domizio si scorge la genesi del quadro a tinte vivide dipinto da Donato; e nel nome del giovane Denis, il nipote di Donato, rivive il ragazzo la cui corsa s’è arrestata solo per colpa della violenza che così fortemente respingeva. Il tutto mentre, al centro del campo, un altro caschetto biondo, quello di Donata Bergamini, sorella di Denis, viene costellato dai ragazzini della scuole calcio in contemplativo silenzio: un po’ come se, sul dischetto di centrocampo, la voce della donna dovesse narrar loro una storia. E così sarà.
Il momento più alto della kermesse: un bambino veste la casacca ‘8’ di Bergamini e calcia un rigore (photocredits: Ilenia Caputo)
Donata Bergamini in posa accanto al nome di suo fratello, scelto nell’undici del secolo (photocredits: Nunzio Garofalo)
Donata schiude i cuori, e parla alla città intera. E, forse, anche al Paese. Porge le spalle alla nord, ed il fianco alle tribune: ma sente il dovere morale ed emozionale di rivolgere il viso a quei tifosi che, da oltre un ventennio, aspettano come lei la Verità e comprano il biglietto d’una curva, la Sud, che porta il nome di suo fratello.
Ogni istante della lettera che dedica al centenario è un boccone sapido, come i gusti decisi che si ricercano in giovinezza e che la nostalgia rende ancor più marcati, ed al contempo amaro, perché schiude ferite che il palato, per quanto predisposto, fatica a mandar giù. E’ il momento più alto e toccante dell’intera cerimonia: perché i cuori, adesso, si concedono non egoisticamente a sé stessi, quanto piuttosto esclusivamente a chi si avrebbe voluto avere al proprio fianco.
Ed allora il pensiero vola inevitabilmente anche a Piero Romeo. Lo storico capo ultras – etichetta che però lui respingeva con veemenza – dell’epoca, gli ’80, più florida del Cosenza: quella in cui i nuclei sconvolti rappresentarono un fenomeno assolutamente unico ed innovativo anche nel panorama sociale.
Il centenario è dedicato anche a lui, che insieme a Padre Fedele Bisceglia diede vita, in città, all’Oasi Francescana ed alla ‘mensa dei poveri’, nella cucina della quale trascorreva le giornate prima dell’ictus e della malattia che lo portò via nel 2011. E’ da allora che i ragazzi dell’associazione benefica ‘La terra di Piero‘ lavorano, anima e corpo, alla realizzazione dei suoi sogni. I sogni d’un ragazzo che si dedicava interamente ai diseredati ed agli esuli dalla società, e che accompagnava il frate in Africa per assistere i bisognosi.
Anche lui, così come Catena e Bergamini, si meritava un centenario così. Peraltro condito, come se ce ne fosse bisogno, anche dai tre punti che arrivano al termine del match contro l’Aversa Normanna. Finisce 2-1 per gli ultracentenari, e, coerentemente con lo spettacolo che si vive prima e dopo l’incontro, anche la partita (sopratutto nella sua prima frazione) è foriera d’emozioni forti e scintillanti istantanee. A cominciare dal gol, dopo pochi minuti, della mezzala Criaco in sforbiciata volante, a seguito d’una furibonda sgroppata sulla destra del solito Alessandro. Il tiro mancino al volo che si insacca sotto il sette del secondo palo è un misto – non ce ne voglia chi ama deridere i paragoni azzardati – tra la coordinazione del colpo di Zidane in finale di Champions contro il Bayer, e la traiettoria immaginifica del capolavoro di Van Basten nella finale di Euro ’88 contro la Russia.
Ed altrettanto bello è anche il pari degli ospiti, che non hanno certo sfigurato al cospetto del non certo facile da impattare gorgoglìo dello stadio Vito stracolmo: è il 30′ quando Orlando si prodiga in una rovesciata balisticamente impeccabile che gela l’intero impianto. Bastano pochi minuti, però, ai padroni di casa per ristabilire le distanze e segnare il gol del definitivo vantaggio: in rete va Mannini, dopo una convulsa e caparbia azione di rimessa.
E’ a questo punto che le curve possono partorire i loro ben cinque giri di ola consecutivi, che coinvolgono tutti gli oltre 16mila del San Vito. Un San Vito che da anni ed anni non si vedeva così gonfio e ridanciano, e soprattutto teatro d’un’affluenza assolutamente miracolosa, se si considera la categoria d’appartenenza – la vecchia C2 – e che, ad esempio, al termine del girone d’anadata la media degli spettatori in Serie A non ha superato quota 24mila.
Frames dalle curve del San Vito. L’attimo dei fuochi d’artificio (photocredits: Fantagazzetta)
Una virtù, quella di rendere stracolmi gli stadi nonostante il livello di categoria non certo gratificante, in verità, assai diffusa e radicata in tutto il meridione. Dove l’approccio empatico, però, spesso non combacia con i risultati e la professionalità dirigenziale.
Un malcostume imprenditoriale che, purtroppo, è tristemente presente anche nel passato del Cosenza Calcio. L’augurio per i lupi, così come per tutte le altre grandi decadute del nostro pallone, è ovviamente quello d’una pronta rinascita.
Rinascita che, in realtà, è già in divenire.
Ne è oggettivamente degno il rutilante susseguirsi dei fatti, degli avvenimenti, degli uomini e delle donne del Cosenza e di Cosenza. Ne è degno il canovaccio d’un racconto che, da oggi, sfora il secolo e la cui trama vede al centro quell’incantevole simbolo che è il lupo. Ammaliante, enigmatico, profondo: tutto da scrutare, proprio come una bella donna. In comune, d’altra parte, hanno la robustezza, l’energia, la forza vitale, la capacità di dare la vita, la dedizione atta a difendere il territorio, l’inventiva, la lealtà. Sono queste le virtù che gli hanno consentito di sopravvivere, e farsi amare, come non mai.
Un certo Jim Morrison, un cinquantennio fa, e seppur con un accenno dissacrante e noir, disse che non esiste poesia che non abbia i lupi dentro. Aveva assolutamente ragione. Ed anche quel pizzico d’accezione inquietante, credetemi, ben ci sta.
Descrive fedelmente la vera essenza, indomabile, di questi fieri animali da vittoria.
Perché si potranno sempre e comunque addomesticare i cani col cibo, e gli uomini con il denaro, ma non i lupi. A maggior ragione se ultracentenari.
Alfredo De Vuono Follow @AlfredoDeVuono