Il 18 novembre del 1989 ero una giovane matricola dell’Università della Calabria. Ero arrivato a Cosenza da un paio di mesi con il carico di entusiasmo e sogni da realizzare. Sono cresciuto a pane, sport e vita da strada.
Naturale, dunque, che il calcio facesse parte di almeno una discussione in ogni giornata. Tanto da portarmi poi a diventare quello che ora sono. Tra l’altro già da Crotone seguivo tutte le squadre calabresi. Inoltre arrivavo in una città che aveva appena conquistato la Serie B, e che io avevo già seguito da Crotone. Arcavacata era poco più che un cantiere, con annessi pascoli e colline di argilla. Il bar della mensa dell’Università era una sorta di “Novantesimo minuto”, in cui era concentrata la Calabria intera. Luogo di discussioni pre e post partita, soprattutto con Gianfranco Perrotta, membro del club “Tre scalini” di via degli Stadi e fratello di un ex calciatore del Cosenza.
Ho conosciuto tantissimi tifosi dei Lupi, centinaia, migliaia, e per la quasi totalità di essi la morte di Denis Bergamini era un lutto personale. La dipartita di un parente stretto, di un amico caro, di una persona alla quale ti affezioni anche se non vuoi. Gli accadimenti del 18 novembre 1989, vissuti da matricola che si apprestava a vivere l’esperienza universitaria e da amante spassionato di calcio, aveva scavato anche in me, che non conoscevo Bergamini, una cicatrice più morale che materiale. Ricordo le immagini di piazza Loreto in televisione, ricordo i racconti dei miei amici cosentini che avevano partecipato ai funerali.
Lacrime, incredulità, ma anche coscienza, per molti che, già all’epoca, presagivano che qualcosa di poco chiaro avvolgesse la morte del biondo numero 8 di Argenta. Forse quell’idea collettiva di ingiustizia, quei dubbi che per anni i miei compagni della curva rossoblù mi hanno raccontato, hanno fatto sì che per me la morte di Denis fosse associata ai grandi misteri italiani.
Non riuscivo a pensare al mistero “suicidio” di Bergamini senza ripescare nei cassetti della memoria il volo Italia Bologna-Palermo della sera del 27 giugno 1980 (strage di Ustica); la bomba alla stazione di Bologna; l’uccisione di Pier Paolo Pasolini. Ero consapevole che in ognuno di questi misteri si finiva per sbattere su un muro di gomma che ti faceva tornare più indietro del punto di partenza. Il germe di giornalista, evidentemente, si era già “impossessato” di me, perché sulla strage di Ustica avevo raccolto una quantità infinita di documenti, che poi lessi tutti.
Così come mi ero studiato a fondo sia la bomba alla stazione di Bologna che l’uccisione di Pier Paolo Pasolini.
Un giorno un mio ex direttore di giornale mi chiese se sapessi cosa trasforma una persona in un giornalista. Io gli dissi che non avevo una risposta precisa, ma che la mia curiosità spesso mi portava a cercare fatti, date, circostanze.
“Allora puoi fare il giornalista”, disse. E come per le altre vicende anche per la morte di Denis Bergamini, per quell’ alone di mistero che avvolgeva il 18 novembre del 1989; cominciai a cercare notizie, a informarmi presso quelli che, da amici, si erano trasformati in colleghi di lavoro. E poi c’era quel pezzo di statale jonica che percorrevo abbastanza spesso. Quelle sciarpe rossoblu, quei fiori.
Ogni volta che passavo da Roseto avevo come l’impressione che avrei dovuto fare qualcosa, quasi come un richiamo ancestrale la mia mente veniva portata verso quel pensiero di giustizia, di verità, di conoscenza dei fatti. Era più forte di me.
Così appena ne ho avuto la possibilità ho cominciato a cercare, a chiedere. Nel 2009 scrissi un pezzo per il blog Terramara, dal titolo: “Chi ha ucciso Denis Bergamini?”. Ricevetti la telefonata del mio fraterno amico Claudio Dionesalvi. Ci scambiammo alcune opinioni”.
Ad aprile del 2011 parlai di questa storia al direttore di Sky sport (Massimo Corcione): avevo avuto notizie che l’avvocato Eugenio Gallerani, legale della famiglia Bergamini, stava lavorando ad un memoriale e che il caso potesse essere riaperto. Nel luglio del 2011 insieme alla collega Silvia Vallini girammo un pezzo da 26 minuti che fu trasmesso a puntate su Sky Sport 24 e integralmente su Sky Sport 1 e Sky Sport 2 nell’agosto dello stesso anno. Ventisei minuti, per una tv, sono un’eternità, e se la più grande piattaforma satellitare di sport aveva deciso di dare tutto questo spazio all’omicidio di Denis Bergamini evidentemente le sensazioni erano quelle di una svolta.
Tanto più che la Procura di Castovillari aveva acquisito agli atti lo speciale perché conteneva rivelazioni importanti di alcuni intervistati. Da quel giorno cercare qualsiasi contributo per far luce sull’omicidio di Denis Bergamini è diventata per tutti noi quasi una missione. Spesso rivedo gli occhi del papà Domizio: la sua tempra e la sua forza sono tutte in quello sguardo, fiero, deciso, anche se stanco e logorato da 24 anni di infinito dolore. Ascolto Donata che sta sacrificando la sua stessa esistenza pur di arrivare alla verità, pur di sapere come e perché un biondo fratellone di 27 anni, ha finito la corsa della sua vita in quella squallida piazzola (?).
Da giornalista penso che la ricerca e il racconto della verità, qualunque essa sia, debbano rappresentare la vera mission del nostro mestiere. Ma l’obbligo di un giornalista è quello di fare domande, domande, domande. Ci sono una miriade di incongruenze nella morte di Denis, molte delle quali ormai sviscerate, ma che devono rappresentare materiale probante per addivenire ad un processo per omicidio. Ma ci sono anche domande alle quali nessuno risponderà e allora ci vorrà ancora più pazienza per cercare le risposte da soli. L’associazione “Verità per Denis” ha fatto e sta facendo un lavoro immenso, straordinario per impegno e passione. La vera dimostrazione di coscienza civile e collettiva, troppo spesso sottovalutata, ma che, invece, in un’epoca di solisti normalizzati rappresenta una vera e propria rivoluzione. Il coraggio di molti contro la pavidità di pochi, soprattutto quelli che hanno saputo, sanno e continuano a tacere. La ricerca della verità sulla morte di Denis Bergamini rappresenta un atto di infinito amore. Quell’amore che il numero 8 donava ai suoi tifosi, correndo su un prato verde, mordendo le caviglie degli avversari, bagnando la maglia fino all’ultima goccia di sudore, quell’amore che ora aspetta di essere ricambiato. Per sempre.
Bruno Palermo – Tuttosport, SkySport