Esiste un calcio ancora positivo e un calcio marcio. Così come esiste un’informazione estremamente lucida e altra “dopata”, come certi atleti o i bilanci delle società sportive. Cattiva informazione e poca voglia di andare fino in fondo, con coscienza e coraggio, hanno fatto sì che la morte di Denis Bergamini diventasse uno dei tanti misteri di questo Paese.
Una storia all’italiana, in questo caso una tragedia famigliare che ha colpito un’intera comunità, quella cosentina in primis, e poi tutta la grande tribù del calcio, quella ancora sana e sensibile alla perdita di un suo piccolo eroe esemplare. La storia di Denis Bergamini l’ho rivissuta anni fa quando incontrai Carlo Petrini e allora, entrambi eravamo concentrati soprattutto sulle malattie e le morti misteriose del calcio italiano causate dall’abuso di farmaci e sostanze dopanti. Lui ne scrisse nel suo libro “Il fango del dio pallone”, io e Fabrizio Calzia in “Palla avvelenata”. Due libri che hanno smosso le coscienze e aperto gli occhi a tanti, così come accadde per l’altro libro di Carlo dedicato a Bergamini, “Il calciatore suicidato”.
Una vicenda drammatica che già dal titolo Petrini aveva acutamente rivisto e corretta: non si trattò di suicidio, Bergamini è stato ucciso. Una verità crudele, un buco nero che dura da 24 anni e che adesso chiede di essere illuminato con una parola immensa che si chiama “Verità”, la quale richiede l’assist necessario di un’altra, la parola “Giustizia”.
Avevo vent’anni quando è morto Denis e per me ogni piccolo eroe esemplare del pallone l’ho sempre visto come un amico e sfogliando il Panini, era come aprire l’album di famiglia. Quando a distanza di tempo ho rivisto il suo volto, quel sorriso di ragazzo felice e appassionato con tutta una vita davanti, ho avuto un solo pensiero che serbo ancora: non è giusto che abbia dovuto pagare un prezzo così alto. Per cosa poi? E per mano di chi? A questi interrogativi, vorrei che una volta per tutte vengano date delle risposte. Che le fiaccole accese, ad illuminare quell’abissale buco nero di omertà, tenute in mano dai ragazzi della Curva del San Vito e dalle speranze di domani del Cosenza Calcio, portassero alla luce tutto quello che c’è ancora da sapere sulla morte ingiusta e precoce di un ragazzo. Perché Denis era prima di tutto un ragazzo, e in un Paese civile non si può morire senza neanche il diritto di sapere perché e per mano di chi.
Massimiliano Castellani, giornalista Avvenire e scrittore