Nel novembre 1989, Donato Bergamini era uno dei più interessanti centrocampisti italiani. L’incidente sulla statale 106 jonica resta però un mistero insoluto. La fuga dal ritiro, le telefonate sospette dei giorni precedenti, le scarpe pulite. Qualcuno ha ucciso il calciatore del Cosenza? Vent’anni dopo, la sorella Donata e il padre Domizio hanno accettato di rispondere al “Guerin Sportivo”.
Maria è seduta sul divano. In silenzio. Dalla sua bocca esce solo una frase, che svela una piccola curiosità: «Fu l’impiegato del Comune di Argenta che non volle scrivere Denis. Allora ripiegammo su Donato».
Fa caldo a Boccaleone, piccola frazione del Comune di Argenta, nel ferrarese, dove vive da sempre la famiglia Bergamini. Donato è morto da più di vent’anni, ma la sua presenza si avverte. Non soltanto nelle foto, quasi tutte in tenuta da gioco, che tappezzano le pareti. C’è negli occhi della sorella maggiore Donata. Nelle mani piccole e forti di babbo Domizio. Nei silenzi di Maria, sua madre.
Denis è lì, nel cuore di una famiglia le cui lancette del tempo si sono fermate al 18 novembre 1989, un sabato, giorno della sua misteriosa morte: «Verso le otto e mezzo di sera», ricorda Donata, «vennero da me i genitori di Brunelli, il secondo portiere del Cosenza, che è di queste parti. Io non c’ero, trovarono Guido, mio marito. Le notizie erano confuse e frammentarie».
«Io ero al bar», ricorda invece Domizio. «Ogni sabato ci trovavamo con gli amici per giocare a carte. I carabinieri di qua avevano telefonato a mia moglie per dire che Denis aveva avuto un incidente con la macchina. Una cosa grave. Maria mi chiama e mi dice di tornare a casa. Nel tragitto inizio a pensare a cosa può essere successo. Magari la macchina (una Maserati bianca, ndr), che è bassa, ha urtato qualcosa».
Domizio, però, non è convinto, più di un elemento è fuori posto: «Era sabato, con la squadra in ritiro. Figurati se Denis l’avrebbe mai abbandonato. È sempre stato un ragazzo scrupoloso. Non gli ho mai dovuto dire di non fare tardi».
L’angoscia sale. Denis è vivo o è morto? I dubbi si accavallano. Domizio è tormentato: «Arrivo a casa e, mentre mia moglie è lì che prepara le valigie, le dico: “Denis l’hanno ammazzato”».
Quelle parole fanno il vuoto. E gelano il sangue. Domizio non ha dubbi. Macché incidente! Qualcuno ha voluto mettere fine alla vita di un ragazzo di ventisette anni che, tra le altre cose, giocava a pallone: «Già, il pallone», è Donata che interviene. «Denis era fissato. Lo ricordo sempre con la palla tra i piedi e con la Juventus nel cuore. Tra noi c’era un anno di differenza. Si giocava spesso insieme, qui nel giardino di casa. Ovviamente a me toccava stare in porta, mentre lui tirava e correva senza soste».
La passione c’è, il talento pure. Il Boccaleone lo arruola presto nei Pulcini: «Era piccolino», rammenta Domizio, «un “cosmo” pelle e ossa. Non avrei mai creduto che con il calcio avrebbe sfondato. lo stavo in disparte, ma chi lo vedeva giocare diceva che fosse bravo».
Proprio così, Denis, biondo e magrolino, in campo è un gigante e si fa notare. Passa poco tempo che un giorno a casa Bergamini si presenta Rino Mazzi, tecnico della vicina Argentana. Vuole parlare con Domizio: «Tuo figlio lo vuole il Bologna».
«Ricordo che traballai. Denis era poco più che un bambino. Non me la sono sentita. Gli dissi: “Papà non ha piacere che tu vada”. E lui fu contento. Era attaccato alla famiglia, alla sorella. Un distacco in quel momento sembrava prematuro».
Sfumato il grande salto, rimane l’abilità di Bergamini col pallone, tanto che si trova a giocare con i più grandi. Anche se non ha l’età: «Falsificarono il cartellino», riprende Domizio, «io non sapevo nulla, me lo hanno detto a cose fatte».
Denis calamita le attenzioni. Per quel modo di stare in campo, per la sua generosità, per il grande cuore. Il pubblico è dalla sua parte, ne avverte la presenza. Lo soprannominarono Cavallino, a qualcuno ricordava Tardelli. Poi una volta successe che segnò anche un goal, addirittura in Svizzera, con la maglia dell’Argentana: «Questa è una storia da raccontare», sorride dolcemente la sorella, «perché quel testone mica voleva andarci. Avrà avuto dodici o tredici anni. Finito il campionato, l’Argentana lo vuole per un torneo giovanile che si disputerà, per l’appunto, in Svizzera. Mi ci volle tutta la notte per convincerlo. Era attaccato alla casa».
«Credo che abbia inciso anche il mio lavoro», interviene Domizio. «Partivo alle quattro di mattina e tornavo alle undici di sera. Ai figli questo pesava. Denis voleva sempre il bacino prima che io partissi. Se non glielo davo, piangeva».
L’intervento notturno della sorellona si rivela però decisivo. Denis va e torna vincitore. Microfono ancora a Donata: «Riuscì a segnare un goal. Era gasatissimo, ma lo sarebbe stato ancora di più l’anno dopo, quando con la maglia della prima squadra dell’Argentata fece un goal di testa: una cosa incredibile».
Tutto sembra procedere nella giusta direzione. Denis è sempre più protagonista. È serio, responsabile. Fa anche delle cose strane, tipo torturarsi i piedi per giocare con le scarpe più strette: «Diceva che così sentiva meglio il pallone», spiega con orrore Donata. Ma per Denis, lei ha una venerazione. Anche perché è un “cazzaro”: fa il “vu’ cumprà” in spiaggia, si specializza nel lancio dei gavettoni, ha lo scherzo in canna. Una simpatica canaglia, ma pure il grimaldello per neutralizzare il catenaccio che papà Domizio le ha cucito addosso.
«Non avevo libertà», sorride Donata, mentre rivolge uno sguardo affettuoso al babbo. «Uscivo solo perché c’era mio fratello. Ed è stato grazie a Denis che ho conosciuto il mio futuro marito».
Domizio sorride ed annuisce. Gli occhi brillano, anche perché, in questo turbinio di immagini datate, riaffiora nella mente il ricordo di una notizia che sembrò, in quel momento, azzerare ogni speranza per la carriera di Denis: «Mi dissero che aveva problemi al cuore. Rimasi senza parole, non mi sembrava possibile».
Sono momenti di paura e incertezza. Ma l’arcobaleno della speranza non tarda ad apparire. Risolse tutto il professor Lincei di Imola, uno che curava i ciclisti. Gli disse: «Hai i battiti del cuore come Mercks».
Il vero problema era la mancanza di ferro. Fialette e bistecche. Denis cresce, irrobustisce il fisico, ma il grande salto non arriva: «Ma andava bene anche così. Per Denis giocare con l’Argentana era già abbastanza. Ad ogni modo, se fossi stato un po’ più presente, qualcosa si sarebbe smosso anche prima».
Smozzica la frase Domizio, urge approfondimento: «Niente, una volta Denis insieme ad altri ragazzini fece un provino per la Juve. Mai saputo nulla. Molti anni dopo, salta fuori che Denis avrebbe dovuto fare un altro test, ma che a quella seconda prova il dirigente incaricato portò suo figlio».
Nel 1982, finalmente, la ruota inizia a girare per il verso giusto e per Denis arriva prima l’Imolese, quindi il Russi, campionato Interregionale. Passano tre anni ed ecco la vera svolta: «Stava giocando contro il Lugo ed a vedere la partita c’era il Direttore Sportivo del Cosenza Roberto Ranzani, che è di queste parti. In verità, era lì per osservare un altro giocatore, ma rimase colpito da Denis. E lo prese. Da lì è partito tutto».
Domizio fa fatica a nascondere la sua avversione per quel trasferimento in una terra così lontana: «Non ero contento. Il Cosenza faceva la C1, c’era un nostro paesano che giocava là, un certo Simeoni. Io suggerii a Denis di prendere un procuratore, ma lui non volle. Allora mi rivolsi al suo vecchio maestro di scuola perché ci assistesse al momento del contratto. A Ranzani dissi: “Questo me lo tieni al massimo due anni”. Il contratto, poi, arrivò per posta. Era un biennale con l’opzione per il terzo anno».
Atmosfera particolare in casa Bergamini. Denis è contento, mentre Domizio è combattuto, ma per amore di padre non ostacola il percorso del figlio: «Vedevo Denis soddisfatto e per me andava bene così. Fu subito titolare, legò alla grande coi tifosi, gli allenatori gli volevano bene. Al terzo anno, poi, la Serie B. Di Marzio, il mister della promozione, recentemente lo ha paragonato a Nedved, per la dedizione alla squadra e lo spirito di sacrificio».
«Denis era così», aggiunge Donata, «uno generoso, umile ed attaccato alla terra. Quando tornava, si metteva sul trattore ed andava per campi ad arare. E quando si doveva muovere, prendeva la bicicletta e pedalava».
Poche parole e molti fatti. Ed anche tanti interessi di mercato intorno al biondino, che nell’estate del 1989 diventa uno dei pezzi più pregiati: «Il Parma lo voleva a tutti i costi», ricorda fiero Domizio, «si era mosso persino Scala, che aveva garantito a Denis una maglia da titolare. C’era anche la Fiorentina con Bruno Giorgi, che aveva avuto Denis l’anno prima al Cosenza. Si telefonarono, Denis aveva paura di dover fare panchina, e Giorgi gli diceva: “Con me giochi dietro a Baggio”. Che cara persona Giorgi: quando Denis morì, mi chiamò e pianse al telefono: “Se fosse venuto a Firenze, a quest’ora sarebbe ancora qui”».
Un tourbillon di parole e di tentati accordi, ma intanto parte la controffensiva del Cosenza. Un giorno chiamò Luigi Simoni: «Risposi io, pensando che fosse il suo vecchio compagno di squadra. Era, invece, il nuovo tecnico del Cosenza».
Simoni cerca di convincere il ragazzo a rimanere, ma nulla. Poi interviene Ranzani e Bergamini cede: «Denis si sentiva debitore nei confronti di Ranzani, dei tifosi ed anche del Cosenza. L’anno prima aveva subito un grave infortunio e la società gli aveva messo a disposizione una macchina per favorire la guarigione».
Ancora Calabria, dunque, nel futuro immediato di Denis. Con ingaggio triplicato. Bergamini ha ventisette anni, titolare indiscusso del Cosenza con cui l’anno prima ha sfiorato la promozione in A, sfuggita per la classifica avulsa. Le attese per la stagione 1989/90 sono molte, ma l’inizio di campionato è in salita: «Andai a vederlo contro il Monza», riannoda i fili della memoria Domizio, «il 12 novembre 1989. Fu l’ultima sua partita. In tribuna c’era Trapattoni che, mi fu riferito, rimase colpito da Denis. Ma la gara non mi era piaciuta. L impressione è che non tutti si impegnassero. Mi dissi: non ci vado più. Ne parlai anche con mio figlio. E lui: “Tranquillo, babbo, tanto il prossimo anno vengo via”. Dentro di sé Denis aveva maturato la decisione».
Ma purtroppo il destino gli avrebbe riservato tutt’altra storia. Lunedì 13 novembre. Denis si ferma a Boccalone, dopo aver trascorso la notte precedente a Milano: «Era solito che accadesse», afferma Donata.
Il lunedì, quando le distanze lo potevano consentire, passava da casa. In più c’era un altro motivo: «Mia figlia Alice, che all’epoca aveva cinque anni, aveva appena fatto il compleanno e Denis le aveva promesso un regalo». Sorride Donata. «Rido perché l’anno prima mio fratello aveva affittato un carrello, ci aveva messo sopra la cucina della Barbie ed era partito da Cosenza. “Sei proprio matto, guarda che quella cosa la potevi comprare pure qua” gli dissi. Comunque Alice fu felicissima, tanto che si aspettava per questo compleanno un altro giocattolo».
Ed invece lo zio le regala un bel paio di Timberland: «Non ti dico i pianti di mia figlia e le nostre risate. Denis allora, con Alice per mano, andò a cambiare le scarpe con un maglione rosa ed un paio di pantaloncini bordeaux».
Il clima è sereno. Specie quando si è intorno alla tavola imbandita. Tutti a cena. All’improvviso, però, squilla il telefono. Va Denis. La conversazione dura pochissimo. È Domizio che ricostruisce quegli attimi: «Quando è tornato a sedersi, ha iniziato a sudare. Gli uscivano le goccioline dalla fronte. Il viso era diventato rosso, quasi viola. Nessuno di noi l’aveva mai visto così. Allora gli dico: “Denis, hai caldo? Togliti il maglione”. E lui: “No, sono altre cose”. Ho cercato di capire cosa potessero avergli detto al telefono, ma lui rimase in silenzio».
«Allora ci ho provato io», riprende Donata. «Più tardi siamo andati a casa mia. Era già successo che con me si fosse aperto, senza la presenza del babbo. Lo conoscevo bene, non era il caso di insistere e lasciai perdere, sperando di poterlo risentire per telefono nei giorni successivi».
La famiglia Bergamini è scossa. Domizio fa un ultimo tentativo il martedì: «Denis aveva appuntamento con il suo compagno di squadra Massimo Storgato, ad Imola, per scendere giù a Cosenza. Lo accompagnai e lo stuzzicai sulla partita col Monza. Niente. L’unica cosa che mi disse fu ancora una volta che quella sarebbe stata l’ultima annata in Calabria. E da lì non l’ho più né visto, né sentito».
«Lo chiamai il mercoledì mattina», incalza Donata, «ma lui era già uscito. Di solito richiamava, quella volta non l’ha fatto».
Il respiro di Donata si fa affannoso: «C’è una cosa che mi rode dentro da allora. È una cosa personale, un senso di colpa che mi attanaglia. Un anno e mezzo prima del 18 novembre 1989, Denis mi aveva fatto una confidenza che riguardava la sua sfera privata. Però mi disse: “Non dirlo a papà”. Io la cosa a mio padre la dissi. Papà, allora, chiamò subito mio fratello e si arrabbiò parecchio con lui. Denis se la legò al dito: “D’ora in avanti non ti dirò più niente”. Ecco, queste parole mi sono rimbalzate durante tutto il viaggio che facemmo la notte del 18 novembre per raggiungere Cosenza. Se non fosse accaduto, magari Denis mi avrebbe raccontato della telefonata».
I dubbi, in quel viaggio tra l’Emilia e la Calabria, sono ancora tantissimi. L’unico che sa qualcosa in più è Guido, il marito di Donata: «Gli tirammo fuori le parole con le pinze e credevamo poco a cosa ci stava raccontando mio marito. Papà insisteva sull’impossibilità che Denis avesse lasciato il ritiro. Poi spuntò fuori il nome di Isabella Internò, l’ex fidanzata di Denis con cui da mesi non stava più insieme, quindi il fatto che l’incidente fosse avvenuto a cento chilometri da Cosenza, la sera tardi. Non tornava nulla».
L’arrivo in Calabria nella notte, il tempo di un respiro e via dritti verso la stazione dei carabinieri di Roseto Capo Spulico, luogo del presunto incidente: «Volevamo parlare con il maresciallo che aveva effettuato le prime operazioni», ricorda Donata. «Ci dissero che dovevamo aspettare, che si stava facendo la barba e che avrebbe parlato solo con mio padre. Ci siamo arrabbiati, ma non c’è stato nulla da fare».
Il maresciallo Barbuscio, rasato a puntino, riceve Domizio: «Esordì dicendo: “Cosa ha fatto suo figlio?”. Poi mi raccontò una storia assurda, quella del suicidio. Mi disse che Denis aveva abbandonato il ritiro; che intorno alle 17:30 lo aveva fermato a un posto di blocco. Aggiunse che Denis aveva parcheggiato la Maserati su una piazzola sulla statale 106 Jonica; che era con quella ragazza con cui non stava più insieme da tempo; che voleva scappare; che voleva andare a Taranto per imbarcarsi per la Grecia; che aveva fatto l’autostop, ma nessuno si era fermato; che aveva detto alla donna: “Ti lascio il mio cuore, ma non il mio corpo” e che, intorno alle 19:30, quando ormai era buio, si era buttato sotto un camion per ammazzarsi. E che tutte queste cose gliele aveva dette quella ragazza».
Domizio sente il sangue ribollire: «Ma cosa pensava quel maresciallo, che potessi credere a quelle fandonie?».
«La frase a effetto del corpo e del cuore», interviene Donata «non appartiene a Denis, non è sua».
Ad un certo punto, prima di uscire dalla stanza, il maresciallo consegna a Domizio una busta gialla. Dentro ci sono i documenti di Denis, 500.000 Lire, un assegno di 9 milioni non cambiabile, la catenina e l’orologio che portava al polso il giorno prima: «Era intatto», dice ancora oggi sbalordito Domizio. «Non c’era neanche un graffio. E funzionava. Ma come: uno viene investito da un camion di 130 quintali (che poi ripassa anche a marcia indietro sul corpo, secondo la versione ufficiale) e l’orologio non si rompe?»
Domizio esce dalla stanza del maresciallo. È livido in volto: «Nella busta gialla c’è anche il verbale di consegna degli effetti di Denis. Manca l’orologio e lo faccio presente al maresciallo. Il quale mi dice: “E che vuole? È una cosa in più”».
Il clima si fa rovente. Domizio vuole vedere il luogo dell’incidente, ma il maresciallo non intende accompagnarlo: «Allora io perdo le staffe», adesso è Donata a parlare «ed alla fine il maresciallo acconsente. Ma le sorprese non finiscono. Mentre usciamo dalla caserma, vediamo il Maserati bianco parcheggiato nel garage. È pulitissimo, nessun segno di fango, niente. Come nuovo. Eppure il giorno prima ha piovuto, le strade sono ancora sporche».
Non quadra nulla. E sarà peggio con il passare dei minuti. Riprende il racconto Domizio: «Veniamo condotti fino alla famosa piazzola. È un’area vastissima, enorme. Coperta di fango. La strada è lontana. Chiediamo al maresciallo di indicarci il punto esatto dell’impatto e lui farfuglia qualcosa. Gli facciamo delle domande e non risponde. Mio genero va sull’asfalto. Non ci sono segni di frenata. Si sposta, percorre alcuni tratti a piedi, ma nulla. Eppure ci hanno detto che il corpo è stato trascinato per oltre sessanta metri».
La rabbia prende il posto dell’angoscia e del dolore: «Solo in un secondo momento ci siamo resi conto che il maresciallo ci aveva fatti fermare molti metri prima rispetto al luogo del presunto impatto. Ce ne accorgemmo guardando un servizio al “Processo del Lunedì”».
Il mistero si infittisce. Gli interrogativi rimangono senza risposta. Peggio che mai quando i familiari di Denis si recano all’obitorio, a Trebisacce: «All’inizio ci ostacolarono», ricorda Donata. «Chiedemmo di avere i suoi vestiti, ma ci dissero che li avevano già distrutti. Poi riuscimmo a vedere il volto di Denis. Era intatto. Il medico legale che fece poi l’autopsia, certificò che era presente una ferita sulla parte destra del corpo. Ma Denis venne trovato a pancia in giù, per cui le ferite avrebbero dovuto essere sul lato opposto. Ma c’è di più: nella perizia, si dice che la persona era supina quando fu investita e non in piedi come dichiarato dall’autista del camion».
Si ferma per un attimo, Donata. Prende una foto e la mostra: «Questo è un ingrandimento, a colori, dell’unica fotografia che ci fu fatta vedere in quei momenti: una polaroid in bianco e nero, grande come una figurina dalla quale si poteva solo intuire qualcosa».
L’immagine è un cazzotto nello stomaco. Ma è chiara. Così come è lampante un altro aspetto: le scarpe di camoscio ai piedi di Denis sono integre e le suole pulite. Donata si alza un’altra volta: «Eccole qui le scarpe. Ce le ha fatte avere un collaboratore del Cosenza nel marzo 1990, in segreto. Sembrano quelle di una persona che ha camminato nel fango e che poi è stata investita e trascinata per sessanta metri?»
Denis lo hanno ammazzato. Domizio lo ha detto fin dal primo momento. La storia del suicidio non poteva reggere. Ma anche la versione ufficiale dell’incidente stradale non ha mai convinto. Ha iniziato subito la sua battaglia per la verità: «Sono andato avanti io. Ho tenuto fuori mia moglie e Donata. Sono tornato diverse volte su quella piazzola ed a Cosenza. E tutte le volte, c’era qualcuno che mi seguiva. Ho partecipato a tutte le udienze, mi sono battuto per difendere Denis dalle accuse più ingiuste. La stampa ha iniziato ad avanzare ipotesi sul calcio scommesse. Ma Denis non vendeva le partite. Qualcuno ha avuto da ridire su quel Maserati. Prima di Denis, era appartenuto a un malavitoso, tifoso del Cosenza, che lo ha venduto a mio figlio praticamente nuovo, dopo neanche mille chilometri, tutto qui. io ho la convinzione che il calcio nella morte di Denis c’entri poco o nulla. I motivi sono da ricercare altrove, nella sfera dei rapporti privati».
È un fiume in piena, Domizio: «Sono troppe le cose che non vanno. Intanto se uno vuole veramente scappare all’estero, non gli bastano 500.000 Lire. Per non parlare della Maserati. Per i Carabinieri si trovava contemporaneamente in due posti diversi. Senza contare le versioni della ragazza e del camionista: una buffonata. E poi, anche la storia che lui abbia abbandonato il ritiro di sua spontanea volontà non convince. I compagni dicono che, una volta entrati al Cinema Garden, non appena spente le luci, Denis si sia alzato e sia uscito. Non si sa se da solo od in compagnia di altre persone. È una cosa che mi fa rabbia. Non è da lui. Oltretutto quella mattina era uscita un’intervista sui giornali in cui mostrava tutta la sua grinta e la carica in vista del derby con il Messina, la partita del giorno dopo. No, non è andata come hanno voluto far credere».
Si ferma un attimo, Domizio: «Ho lottato per vent’anni. La giustizia ha fatto il suo corso, arrivando a stabilire una verità inaccettabile, quella del suicidio. Ci siamo sentiti soli e male assistiti. Dal calcio ho avuto pochissimo sostegno. Il Cosenza dopo pochi giorni dalla morte di Denis andò in silenzio stampa. E ci è rimasto finora. Non ci credevo più e, lo dico con amarezza, avevo riposto le armi».
Invece qualcosa si smuove. Grazie al libro inchiesta di Carlo Petrini ed alla rete, ai social network. Microfono a Donata: «Due anni fa mio figlio Denis mi mette al corrente che su Facebook c’è un gruppo che si chiama “Verità per Donato Bergamini”, fondato da Alessandro Piersigilli, un ragazzo di Terni. Volevo lasciar perdere, ma lui insiste».
È stata la svolta. Donata, che fino ad allora era stata tenuta al riparo da Domizio, prende il testimone dal babbo e prosegue la battaglia: «Ho scoperto che non ero sola. Ho trovato affetto e solidarietà nei tifosi del Cosenza, per i quali Denis era un idolo e coi quali Denis volentieri si confondeva la domenica se non poteva giocare. Con il gruppo di Facebook sono state organizzate iniziative per ricordare Denis e per lanciare il nostro grido di giustizia».
Un grido che finalmente è stato raccolto. Nel giugno scorso, la procura di Castrovillari ha riaperto le indagini. L’ipotesi di reato, adesso, è di omicidio volontario a carico di ignoti: «Gran parte del merito va al nostro avvocato Eugenio Gallerani, che ha saputo rimettere insieme i pezzi e riscrivere la storia delle ultime giornate di Denis». Anche grazie a nuovi elementi e testimonianze. «È venuto fuori che il primo pomeriggio del 18 novembre Denis era rimasto molto turbato da una telefonata ricevuta in camera, così come è emerso che il giovedì sera, due giorni prima della morte, avesse lasciato un messaggio alla vera fidanzata, in cui manifestava timori e paure. Senza dimenticare la rilettura degli indizi già noti».
Riprende fiato Donata, gli occhi rivolti verso il babbo: «La riapertura dell’inchiesta significa vedere riabilitata la figura di mio fratello. Una rivalutazione che vale anche per la nostra famiglia. Non sarà facile arrivare alla verità, sono passati ventidue anni, ma noi riponiamo grande fiducia nei giudici e negli inquirenti che si stanno occupando adesso del caso».
Verità e giustizia. Giustizia e verità per un ragazzo di ventisette anni strappato ad una vita che amava: «Nel cassetto del comodino di mio fratello»,confida Donata, «sono stati trovati i biglietti per gli auguri di Natale. Li aveva comprati, pronti per essere spediti. Denis stava guardando al futuro. Caspita, mi manca tutto di lui».
«Io da quella sera non sono più stato capace di andare al bar», chiude Domizio con gli occhi lucidi.
Nicola Calzaretta