Ieri un calciatore gracile ma tenace paragonabile a Tardelli. Oggi allenatore, maestro, condottiero
Ognuno di noi vive di sogni. Del resto si dice che i sogni aiutano a vivere meglio. E per Denis Bergamini non era diverso. Come ogni giovanotto di belle speranze anche Denis aveva un sogno nel cassetto. Ad esempio i motori erano un pallino sin da bambino. La Ferrari in primis. Alla fine, però, è stato il calcio a prendere il sopravvento. Quando è arrivato a Cosenza aveva l’aria spaurita del pulcino bagnato. Sembrava sorpreso egli stesso della nuova vita che gli si stava aprendo davanti. Con un sorriso, dolce e incredulo, sembrava chiedere “io un calciatore professionista? Ma siete tutti matti?” E, invece, Roberto Ranzani, come al solito, aveva visto giusto. Lo aveva portato a Cosenza non più in tenera età. Il fiuto gli diceva di avere di fronte un signor giocatore seppur Ranzani era andato a vederne un altro. Strani scherzi del destino.
Bergamini era un interno, capace di fare il mediano e, all’occorrenza, di rilanciare l’azione con velocità. Un Tardelli in miniatura. Eppure, a guardarlo, sembrava lontano anni luce dall’idea del mediano grintoso. Non era alto, fisicamente sembrava, addirittura, gracile e, poi, il viso da bravo ragazzo non lo aiutava certo a suscitare il rispetto degli avversari. Ma il rispetto, anzi la stima di avversari e compagni di squadra, Bergamini se la conquistava in partita. Non aveva paura di niente e di nessuno, né si faceva intimidire fisicamente da quelli più grossi di lui. Bruno Giorgi, per descriverne le doti, disse un giorno: “Bergamini è calciatore nella testa. Tutto quello che fa è finalizzato al rendimento che darà in campo. Non si distrae mai. È sempre concentrato su quello che fa. Allenare uno così è un gran piacere”.
Con Giorgi doveva e poteva andare in A…ecco il sogno di Denis. Da Boccaleone fino al Paradiso del calcio. Denis Bergamini per quanto era pulito, era determinato. Per quanto sembrasse gracile era sostenuto da una forza interiore che lo spingeva a non togliere mai la gamba. Ogni contrasto era buono per mostrare la sua personalità. In campo era capace di giocare in tutti i ruoli garantendo sempre un rendimento almeno sufficiente. Sapeva sempre dove farsi trovare, dove c’era più bisogno. La sua capacità di adattamento era esaltata dalle sorti delle partite difficili, quando bisognava lottare metro per metro in tutte le zone del campo.
Grinta in ogni zona del campo, calciatore capace di adattarsi alle necessità del momento per puntare sempre a vincere. Si! Sempre a vincere! Non si accontentava di una buona prestazione. Non gli interessava il bel voto in pagella se il risultato finale premiava gli avversari. L’obiettivo di una partita gli era ben chiaro, così come il valore del collettivo che non può mai essere sostituito da quello di un singolo. Non serve a nulla essere esaltati mentre tutto intorno crolla.
Perciò veniva evitato da quei calciatori primedonne, più attenti alle telecamere che alla vecchia lavagna da spogliatoio. Lui, Denis, è stato un mediano…quel calciatore che sta lì, lì nel mezzo come canta Ligabue.
Da quello che ha rappresentato come calciatore a quello che oggi poteva e doveva rappresentare come uomo. Denis oggi sarebbe Donato, nel senso di un maggiore distacco dalle cose e dal mondo, mediato anche da un nome che avrebbe senso di per sé. Donato, a cinquant’anni, potremmo immaginarlo pienamente immerso nel mondo del calcio, perché, se è vero che è arrivato tardi al mondo del professionismo, è verissimo che aveva il calcio nel sangue e nella mente. Bergamini allenatore, ovviamente. Nessun altro ruolo gli sarebbe stato congeniale. Chi, come lui, vive il calcio con questa intensità cerebrale, prima che emotiva, non può staccarsi dal campo. E lui, su questo non ci sono dubbi, non l’avrebbe mai fatto. Magari avrebbe iniziato facendo il secondo di qualche suo maestro. Bruno Giorgi, ad esempio, lo avrebbe scelto tra mille per l’onestà intellettuale, la caparbietà, la forza interiore. E sarebbe stato un ottimo secondo, ligio alle disposizioni con la squadra, libero di pensiero e di parola nel rapporto col suo mentore. Ma sarebbe durato poco. Bergamini era troppo bravo tatticamente per non emergere. Il campo, infatti, è ancora oggi una fantastica livella di democrazia. I valori emergono sempre. Puoi essere timido, introverso, sfuggire le luci della ribalta, ma quando è il campo a parlare per te, difetti e qualità emergono con prepotenza. Non puoi impedirlo. E Donato aveva qualità da vendere, anche se non usava vantarla a parole. D’altra parte, i fatti sono sempre stati molto più eloquenti delle parole. I fatti, dunque, lo avrebbero portato su una panchina tutta sua. E lì sarebbe cominciata un’altra storia, nel romanzo d’amore che lo legava al pallone di cuoio. Il Bergamini calciatore avrebbe, piano piano, lasciato il posto al Bergamini allenatore, maestro, condottiero. Si condottiero. E, poi, sarebbe stato amato, amato come nessun altro, dai tifosi. Non solo gli appassionati di una bandiera, che avrebbero apprezzato la sua capacità di vincere, ma i tifosi del calcio, di quello sport sano e pulito che prende i ragazzi dalla strada e insegna loro a vivere. Lo avrebbero giudicato come l’ultimo rappresentante di uno sport dai valori antichi e, forse anche per questo, avrebbero mostrato il proprio rispetto usando il suo nome di battesimo.
Donato, non Denis che avrebbe lasciato il calcio giocato diversi anni prima.
Donato, come chi resta con gli altri per una precisa volontà divina.
Piero Bria – Direttore Cosenza Channel