Caso Bergamini, già l’autopsia del ’90 smontava il suicidio
Il viso del calciatore del Cosenza senza un graffio ma fu dato credito al trascinamento da parte del camion per 60 metri
Se questo vi sembra un uomo trascinato da un camion per 60 metri… C’è una foto che parla. C’è una foto che grida. C’è una foto che fa indignare. E’ la foto di Donato Bergamini, un primo piano. Molto stretto. A parte la postura degli occhi, sembra il viso di un addormentato. Con la barba lunga di qualche giorno. Ma quello scatto non è una semplice foto: fa parte della perizia medico legale effettuata nel gennaio 1990 dal professor Francesco Maria Avato, lo stesso che ha contribuito a far riaprire il caso Pantani. Avete letto bene: gennaio 1990. Due mesi dopo la morte del centrocampista del Cosenza.
CASO RIAPERTO — La foto è arrivata alla Gazzetta dalla famiglia Bergamini. Sono stati la sorella Donata e il padre Domizio a decidere questo passo. Come mai? Fa capire, più di tante parole, quanto era poco credibile da subito la tesi del suicidio, un suicido raccontato agli inquirenti dai due testimoni presenti sulla Statale 106 nei pressi di Roseto Capo Spulico: Isabella Internò, ex ragazza di Bergamini, e Raffaele Pisano, l’autista del camion. Entrambi sono ora indagati, la Internò per omicidio volontario in concorso, Pisano per falsa testimonianza, nella nuova inchiesta riaperta dalla Procura di Castrovillari nel 2011. Prima di andare avanti nel racconto, serve una spiegazione: la Gazzetta ha deciso di non pubblicare sul giornale la foto. Certo, è un documento di grande importanza e non vìola nessun segreto istruttorio, ma potrebbe urtare la sensibilità di qualche lettore. E’ disponibile nel sito della Gazzetta: prima di visionarla si è avvertiti dei contenuti forti. Insomma, una presa di responsabilità. Precisato questo aspetto, torniamo al racconto: perché quella immagine grida e fa indignare? Seguiteci.
IL SUICIDIO — “Faccio entrare solo il papà a vedere il corpo: è straziato perché è stato trascinato per oltre 60 metri”. Così il carabiniere Barbuscio accoglie, dopo un bel po’ di anticamera, i familiari del povero Bergamini il giorno dopo quel maledetto 18 novembre 1989. Hanno viaggiato da Argenta tutta la notte, con un dolore lancinante per la notizia piombata all’ora di cena: l’amato figlio, il calciatore lanciato verso una carriera importante in A, morto in circostanze misteriose. Quando arrivano nella caserma di Roseto Capo Spulico, sanno poche cose. Domizio entra nella stanza, gli fanno vedere solo il viso del figlio: il corpo è coperto da un lenzuolo. Barbuscio gli spiega: «Si è gettato sotto un camion, poi è stato trascinato per quasi 60 metri. Non lo tocchi». Il volto è pulito, tranne un piccolo graffio sulla fronte. Il papà sbotta: “Ma che cosa sta raccontando, ho guidato dei camion di quella portata: se uno ci finisce sotto finisce maciullato. Non può essere andata come dite voi”. La battaglia lunga 23 anni inizia quel giorno. Come è stato possibile credere a una versione che faceva acqua da tutte le parti a iniziare da un viso pulito? Come è stato possibile che quel volto senza ferite ispezionato la mattina del 19 novembre anche dal pm di allora, Ottavio Abbate, non abbia instillato neppure il minimo dubbio sul suicidio, dando pieno credito al trascinamento? Ma c’è molto di più.
L’AUTOPSIA — Lasciamo stare i rilievi sballati (con piazzole di sosta spostate di 40 metri) effettuati da Barbuscio nelle ore seguenti al ritrovamento del cadavere (tutti confutati negli anni seguenti), quello che qui ci preme far notare è come si arriva alla foto in questione: con inspiegabile ritardo il pm solo a gennaio decide di far eseguire l’autopsia su Bergamini e ordina la riesumazione del corpo. La perizia è condotta dal professor Avato che scatta una serie di foto fondamentali e fa le sue ipotesi in una consulenza che avrebbe dovuto ripetere durante l’incidente probatorio, diventando una prova da utilizzare in un eventuale processo. Ma questo non accade: Avato non sarà mai sentito, né durante l’incidente probatorio, né al processo del 1991 con Pisano unico imputato (poi assolto) per omicidio colposo. I giudici sentenziano: Bergamini si è gettato sotto il camion. E poco importa se la foto scattata da Avato e la relazione medico-legale suggeriscano altre conclusioni e hanno un nome molto diverso dal suicidio. Il professore fa notare come sia impossibile il trascinamento, come le ferite siano concentrate solo su una parte (il fianco destro) e riconducibili a un sormontamento del camion, vale a dire le ruote fatte passare sopra un corpo steso per terra (e già cadavere come diranno le recenti consulenze, a partire da quella del Ris), Avato per spiegare meglio usa la metafora di un frutto schiacciato ed esploso. E’ quello accaduto alla parte destra del fianco di Bergamini. Ma sul resto del corpo il giocatore non presenta ferite, i vestiti (come dimostrano altre foto scattate sul posto da Barbuscio, immagini che ripubblichiamo) sono intatti, le scarpe ben strette ai piedi, persino le calze sono su. E poi c’è il viso: secondo i testimoni Bergamini si sarebbe buttato a pesce sotto le ruote e poi trascinato. Questo è raccontato agli inquirenti, questo non è mai messo in dubbio nonostante il corpo di uno sfortunato ragazzo dica altro. Gli inquirenti non cambiano idea neppure dopo l’autopsia di Avato. Anzi, quella perizia finisce dimenticata, l’incidente probatorio evaporato.
ATTESA — La foto parla e spiega come mai la famiglia non si sia mai rassegnata. Sta ancora aspettando una risposta: proprio in queste settimane la Procura di Castrovillari sta per chiudere l’inchiesta riaperta nel 2011 (ipotesi omicidio volontario) e condotta dal procuratore capo Franco Giacomantonio e dal pm Maria Grazia Anastasia. Il lavoro del professore Avato è agli atti insieme ad altre novità importanti (consulenze e testimonianze). La tesi del suicidio dopo 25 anni è stata spazzata via dalle nuove indagini. La strada per capire cosa sia accaduto nel 1989 è ancora lunga, ma è arrivata l’ora di capirlo. E magari un giorno qualcuno spiegherà alla famiglia e all’opinione pubblica come mai 25 anni fa sia stato possibile non porsi delle domande guardando un viso di un uomo che doveva essere irriconoscibile, ma aveva solo un graffietto sulla fronte.
Francesco Ceniti