L’ANNIVERSARIO
Bergamini, 25 anni di misteri e bugie
Tutti i punti dubbi sulla sua morte
Denis, calciatore del Cosenza,fu trovato morto davanti a un camion il 18 novembre del 1989. Suicidio, si disse per anni. Ora sta per chiudersi la nuova inchiesta: per omicidio
di Angela Geraci @anfragiu
C’è un orologio che continua a ticchettare in una casa di Boccaleone di Argenta (Ferrara) da venticinque anni. È in perfette condizioni: la cassa dorata lucida, il quadrante senza un graffio, il cinturino in pelle marrone liscio e intatto. Le lancette girano, imperterrite, dentro il cassetto di Donata e scandiscono il tempo che passa senza giustizia per suo fratello Donato, Denis come lo chiamavano tutti. Quell’orologio, infatti, racconta la storia di una morte mai spiegata, lasciata – per scelta, interesse e incuria di qualcuno – senza spiegazioni. Anzi, sepolta da una montagna di bugie. Denis Bergamini ce l’aveva al polso la sera piovosa del 18 novembre del 1989 quando venne trovato morto sul ciglio della Statale Jonica 106 al chilometro 401 vicino a Roseto Capo Spulico, a 100 chilometri da Cosenza. Il corpo del ragazzo, centrocampista del Cosenza di 27 anni, era a pancia in giù sull’asfalto, davanti alle ruote di un camion carico di mandarini che pesava 138 quintali.
L’autista, Raffaele Pisano, raccontò subito di aver investito Denis, di non essere riuscito a frenare e di averlo trascinato «per quasi una cinquantina di metri» sotto il suo gigantesco mezzo. Per 59 metri, precisarono e misero a verbale i carabinieri arrivati sul posto. Denis, disse immediatamente il camionista, si era buttato volontariamente tra le ruote del suo Fiat Iveco 180 e c’era un’altra persona che lo aveva visto e poteva testimoniare: Isabella Internò, la ex fidanzata del ragazzo che era insieme a lui proprio in quel momento. «Si è voluto suicidare», furono le prime parole che la 20enne rivolse all’autista del camion. «Si è buttato sotto le ruote tuffandosi nella stessa posa che si usa quando si fanno i tuffi in piscina: le braccia protese in avanti, la testa leggermente reclinata in avanti, il corpo teso orizzontalmente», dichiarò poi davanti al sostituto procuratore Ottavio Abbate.
Nessuno, venticinque anni fa, si volle soffermare sul fatto che sul corpo del calciatore non ci fosse alcun segno compatibile con la dinamica raccontata. Un corpo stritolato per metri tra l’asfalto e la mole di un mezzo così pesante sarebbe dovuto essere maciullato, con i vestiti quantomeno stracciati in qualche punto. Invece quelle mani «protese in avanti» non avevano un graffio. Così come i piedi, le gambe, le spalle, il volto di Denis (su cui c’era solo una piccola abrasione sulla fronte, vicino all’attaccatura dei capelli sul lato sinistro). I suoi vestiti erano intatti: il gilet di raso, la camicia, i pantaloni, le scarpe di pelle, i calzini a losanghe ancora perfettamente tirati su sul polpaccio. E quell’orologio da polso integro e funzionante. L’unica ferita, grave, era all’altezza del bacino. Denis Bergamini di certo non è stato investito e trascinato come hanno raccontato i testimoni e come è stato avallato dai carabinieri e dai due gradi di giudizio che nei primi anni Novanta hanno assolto il camionista dall’accusa di omicidio colposo. Quella sera di venticinque anni fa le cose non sono andate così come sono state ricostruite. Adesso si sta per chiudere l’inchiesta riaperta nel 2011 dalla procura di Castrovillari, grazie alla tenacia della famiglia Bergamini e al lavoro del loro avvocato Eugenio Gallerani: l’ipotesi di reato, questa volta, è omicidio volontario. Ci sono almeno due indagati: Isabella, per concorso in omicidio, e l’autista del camion per false dichiarazioni ai pm. Ecco, punto per punto, i principali elementi che non tornano in questa vicenda resa difficile dalle menzogne e dal passare degli anni, ma che complicata, in fondo, non doveva essere.
1. La macchina di Denis
Il rapporto scritto dal brigadiere Francesco Barbuscio, il comandante della stazione dei carabinieri di Roseto Capo Spulico arrivato sul luogo dell’“incidente” alle 19,30, contiene una macroscopica incongruenza a proposito della macchina di Bergamini, una Maserati bianca. Nel testo del militare si legge che «sul luogo del sinistro […] l’autocarro era preceduto dall’auto». Quell’auto che, precisa il carabiniere, lui stesso aveva fermato a un posto di blocco due ore prima: a bordo c’erano un ragazzo e una ragazza. Non vedendo la giovane, il brigadiere chiede al camionista dove sia finita e gli viene detto che «con un automobilista di passaggio si era recata a Roseto forse per avvertire i congiunti». Allora Barbuscio scrive di essere andato in paese e di aver trovato vicino a un bar «la ragazza che prendeva posto sulla Maserati di cui sopra». In poche righe la macchina della vittima cambia di posto e si trova contemporaneamente in due luoghi diversi. Ma nessuno ci fa caso. E c’è di più: dagli ordini di servizio in cui i carabinieri registrano tutte le loro attività è sparita proprio la nota, allegato B, con l’elenco delle auto fermate dalle 17 in poi di quel pomeriggio al posto di blocco. C’è poi un altro punto oscuro: Barbuscio scrive di essere stato avvisato che «c’era un morto in mezzo alla strada» dai carabinieri di Rocca Imperiale, un paese vicino, per telefono. Ma chi ha avvisato i carabinieri? Finora non si è mai saputo. Si sa invece che più volte, dopo la morte di Denis, Isabella ha telefonato ai suoi familiari chiedendo che le fosse data la Maserati che Bergamini aveva comprato poco prima da un parente di un dirigente del Cosenza: «Lui me l’aveva promessa in eredità», sosteneva.
2. L’accompagnatore misterioso
Isabella era insieme a Denis quel pomeriggio, anche se (dopo una storia complicata durata quattro anni tra alti e bassi) non stavano più insieme da un paio mesi, ed è la testimone numero uno di quanto accaduto. Al sostituto procuratore dice di aver «chiesto a un ragazzo che si era fermato e aveva una macchina bianca di accompagnarmi a telefonare per chiedere aiuto». Arrivati al bar del paese lei telefona alla madre (e anche alla società del Cosenza e a un giocatore, Marino) mentre «il ragazzo che mi aveva accompagnato telefonò ai carabinieri». Ma i militari sono già sul posto visto che, come dice il brigadiere, sono stati avvisati dai colleghi e Isabella sulla Statale 106 non c’è. Il proprietario del bar, Mario Infantino, dichiara invece che la ragazza arriva nel suo locale insieme a un signore e che, mentre lei parla al telefono, questa persona gli dice di aver lasciato la sua auto sul luogo dell’incidente con dentro la moglie incinta. Per accompagnare Isabella il signore ha usato la Maserati di Denis e poi sempre con quella, dichiara il barista, è tornato dalla moglie lasciando la ragazza nel bar. Come è arrivata davvero Isabella al bar? E come mai l’accompagnatore non si è mai fatto avanti, allora e in tutti questi anni (né lui né l’ipotetica moglie incinta)? Adesso sembra che l’uomo sia stato identificato e ascoltato dagli inquirenti.
3. In viaggio da Taranto
Isabella ha raccontato che quel giorno Denis la passa a prendere in auto sotto casa intorno alle 16. Iniziano a dirigersi verso Taranto e alle 17,30 vengono fermati al posto di blocco dei carabinieri di Roseto. Rimarranno due ore a discutere nella piazzola di sosta vicino a dove sarà trovato il calciatore. Di cosa? Lui voleva lasciare il mondo del calcio e partire per l’estero, Amazzonia o Hawaii. Strano visto che non aveva con sé denaro a sufficienza per una fuga né valigie né passaporto o carta di identità. E poi dal porto di Taranto non ci si imbarca per nessuna destinazione: partono solo merci. Ma quindi, dunque, aveva deciso di scappare o voleva suicidarsi? E se voleva uccidersi perché farlo a 100 chilometri da Cosenza e davanti a una ex fidanzata? Oltretutto il giorno prima di un’importante partita che lui ci teneva a giocare? La domenica il suo Cosenza, salito in serie B l’anno prima e in cui lui stava da quattro anni, doveva affrontare il Messina: Bergamini si era allenato sabato mattina ed era in ritiro con la squadra. «Il calcio era la sua vita – racconta la sorella Donata – e non era mai mancato a un allenamento, anche quando giocava nelle serie minori». Che Bergamini fosse un professionista serio e preciso è stato sempre confermato da tutti: dalla società sportiva, dai suoi compagni di squadra, dall’allenatore.
4. I segni sul corpo
Che Denis non sia stato investito e trascinato per 59 metri dal camion lo capiscono subito sia i tifosi del Cosenza che si precipitano all’obitorio di Trebisacce non appena si diffonde la notizia, sia la famiglia del calciatore che riesce a vedere il corpo la mattina successiva, dopo una notte di viaggio in macchina da Ferrara alla città calabrese. Ai parenti del calciatore, il brigadiere Barbuscio dice che il ragazzo è inguardabile, «distrutto». «Mi ero preparata a vederlo “ammaccato” – ricorda oggi la sorella – ma quando lo vidi in faccia rimasi stordita e scioccata: sembrava che dormisse, notai solo una piccola macchia rotonda grigio-azzurra sulla fronte». L’autopsia non viene fatta subito. Ci sono i funerali a Cosenza (a cui partecipano 8mila persone), poi Denis viene riportato ad Argenta per un’altra funzione religiosa e per essere sepolto. Due mesi dopo, nel gennaio del 1990, viene riesumato e finalmente si fa l’autopsia: 25 pagine in cui il professor Francesco Maria Avato riporta quello che vede (LEGGI LA PERIZIA IN PDF). Risultano «indenni le cosce, le ginocchia, le gambe, i piedi», «gli arti superiori» sono anch’essi «indenni da lesioni», «la teca cranica appare integra». Intorno al collo, «indenne» pure quello, non c’è alcun segno eppure Denis indossava una collanina d’oro (restituita alla sorella dai carabinieri insieme all’orologio e al portafoglio) che avrebbe dovuto lasciare qualche traccia nel trascinamento. Il professore spiega anche che nei casi di investimenti ci sono cinque fasi contraddistinte da lesioni tipiche ma su Bergamini non ci sono tutti questi traumi: c’è solo una «lesività di tipo addominale», gli è stato schiacciato il fianco sul lato destro. Cioè il lato opposto a quello che, stando alla ricostruzione, sarebbe dovuto essere stato colpito dal camion. È verosimile dunque, si legge poi nell’autopsia, «l’ipotesi di schiacciamento da parte di un unico pneumatico del corpo disteso al suolo», un «arrotamento parziale» connesso a un «mezzo pesante dotato di moto “lento”» che ha causato «lesioni da scoppio». Denis è morto in poche decine di secondi per l’emorragia, schiacciato da un camion che gli è salito in parte sul fianco mentre lui era steso a pancia in su. Questo dicono quelle 25 pagine messe da parte e dimenticate per anni. Il professore Avato non è stato mai ascoltato durante il processo all’autista.
5.Il camion
Il camion viene sottoposto a un tipo di sequestro particolare: è lasciato in uso al signor Pisano che quindi risale a bordo e se ne va. Nessuno esaminò quindi il mezzo che aveva investito un uomo. E nessuno controllò bene neppure il cronotachigrafo del quattro assi. Sul dischetto di carta che a quei tempi i camionisti erano obbligati a compilare e inserire nel cruscotto – era una sorta di scatola nera – c’era scritto che Pisano era partito da Rosarno, un paese in provincia di Reggio Calabria, e aveva percorso circa 160 chilometri in quattro ore prima di investire Denis, come scrissero i carabinieri. Ma i conti non tornano: tra Rosarno e Roseto Capo Spulico ci sono circa 230 chilometri. E poi se il camion era andato in media a 40 km orari come era stato possibile che non fosse riuscito a frenare in tempo dato che, con i fari accesi nel buio, un ragazzo che indossava vestiti chiari al bordo della strada doveva essere visibile?
6. Il mistero dei vestiti spariti
Sarebbe stato utile anche poter sottoporre a perizia, appunto, i vestiti che il calciatore indossava quando è morto ma qualcuno pensò bene di fare sparire quelle prove importanti per capire cosa fosse davvero accaduto. Finiti nell’inceneritore, disse un infermiere ai familiari. Le foto scattate dai carabinieri però restano: gli indumenti di Denis sono sani, integri, le scarpe allacciate, i calzini perfettamente tirati su. Non è pensabile che siano gli abiti trovati addosso a una persona vittima di un incidente stradale come quello raccontato. Mesi dopo al signor Bergamini furono fatte recapitare le scarpe del figlio, scampate al “raid” per fare scomparire gli oggetti. Gliele diede il direttore sportivo del Cosenza, Roberto Ranzani, che le aveva avute da uno dei factotum della squadra insieme a un messaggio da portare: a fine campionato quella persona sarebbe andata dai genitori di Denis e avrebbe raccontato quello che sapeva sulla sua morte. Tornando in Calabria dopo l’ultima partita di quella stagione, a Trieste, i due factotum del Cosenza però morirono in un incidente stradale sulla Statale Jonica, a pochi chilometri da dove era stato ritrovato il corpo del giocatore. Negli ultimi anni i familiari sono stati chiari e hanno detto che non vogliono che i nomi dei loro cari vengano associati al caso Bergamini.
7. Le indagini del 1994
Cinque anni dopo la morte di Bergamini qualcuno della questura di Cosenza inizia a fare delle indagini, delle ricerche. Vengono anche messe sotto controllo alcune utenze telefoniche ma poi si ferma tutto. Alcuni funzionari vengono trasferiti ad altri uffici e i risultati di quella inchiesta non ufficiale rimasta incompleta finiscono in qualche cassettiera.
La tesi del suicidio e i progetti per il futuro
Tutti quelli che l’hanno conosciuto, hanno sempre ritenuto impossibile che Denis Bergamini si sia suicidato. Lo ripete da 25 anni la sorella: «Ricordo la sua felicità dell’ultimo periodo – dice Donata – stava raggiungendo tutto ciò che desiderava: l’anno dopo avrebbe giocato in serie A, pensava di costruire la sua casa ed era andato già a vedere dei terreni qui vicino da noi, perché cercava un azienda agricola. Giorni dopo la sua mortesapemmo anche che aveva una ragazza che voleva sposare… Non l’avevo mai visto così felice, era l’anno dei grandi progetti per lui». La fidanzata di Denis si chiamava Roberta, era delle sue parti, si conoscevano da anni e a Cosenza ancora non era mai stata. «Quando ci dissero che era morto e che con lui c’era Isabella – continua Donata – noi cademmo dalle nuvole: perché c’era lei? A 100 chilometri da Cosenza? Abbiamo capito male?». Ma al suicidio non hanno creduto mai neppure i compagni di squadra di Denis, i ragazzi che passavano con lui tutti i giorni. Lo hanno detto da subito: era allegro come sempre, professionale in campo, faceva i suoi soliti scherzi nello spogliatoio, era stranissimo che avesse abbandonato il ritiro sapendo che per punizione poi non avrebbe potuto giocare la partita contro il Messina.Nessuno di loro però, in tutti questi anni, ha saputo o voluto dire di più degli ultimi giorni di vita del calciatore. Neppure Michele Padovano, il compagno amico fraterno con cui Denis divideva la casa e le camere d’albergo durante le trasferte (Padovano poi giocò anche nella Juventus e nel 2011 è stato condannato in primo grado a 8 anni e otto mesi per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga). Nei giorni e nei mesi prima che Bergamini morisse nessuno ha notato nulla di diverso in lui, nessuno ha raccolto qualche sua confidenza? Eppure la vita dei giocatori di una squadra di calcio è cameratesca, soprattutto se ci si trova a vivere in una piccola città come Cosenza, lontani dalle proprie case.
Il Totonero e la droga
Le voci, le ipotesi, le chiacchiere e le congetture intorno alla morte di Bergamini sono nate presto. Si disse che il calciatore fosse stato ucciso perché implicato nel Totonero, la compravendita di partite fatta in quegli anni da alcuni calciatori. Il direttore sportivo Ranzani ripete da anni che non ci ha mai creduto: chi avesse voluto corrompere un giocatore – ha ragionato più di una volta – avrebbe scelto un difensore o un portiere o un attaccante, non certo un centrocampista. E poi si parlò di ‘ndrangheta e traffico di droga. Si diceva che la malavita usasse il pullman del Cosenza per portare la droga al nord; una misteriosa ragazza (che poi sparì nel nulla) telefonò più volte a casa Bergamini sostenendo che invece la droga veniva nascosta in scatole di cioccolatini che Denis inconsapevolmente doveva recapitare durante le trasferte. Ci fu chi disse che nella Maserati del calciatore ci fossero doppi fondi in cui venivano nascosti, sempre a sua insaputa, gli stupefacenti. Ma la macchina di Bergamini è stata analizzata dal Ris e risulta esattamente uguale a come uscì dalla fabbrica, senza vani segreti e nascosti.
«Qui a Cosenza c’è stata per molto tempoun’atmosfera pesante creata ad arte per fare paura alle persone e spingerle al stare zitte – spiega Marco De Marco, nel direttivo dell’associazione “Verità per Denis” – La curva, con i suoi striscioni allo stadio, è stata l’unico spicchio della città a rivendicare la verità su quello che era successo a Bergamini». «Quando si parlava di lui – continua De Marco – vedevi sui volti dei tifosi un misto di vergogna e timore». L’associazione, per i 20 anni dalla morte del calciatore, ha organizzato una grande manifestazione che è partita dal tribunale per finire allo stadio San Vito. «Non abbiamo mai ricevuto minacce per quello che facciamo, nessuno è venuto a spaventarci o intimidirci – conclude De Marco – e da pochi mesi è stata aperta anche una scuola calcio intitolata a Denis». La verità allora forse va cercata altrove, nellasfera dei rapporti personali del calciatore. Forse qualcuno voleva punirlo per qualcosa che Bergamini aveva fatto o detto, oppure doveva essere solo una dimostrazione di forza andata troppo oltre. Poi c’è stata la maldestra messa in scena del suicidio, rimasta incredibilmente in piedi per così tanto tempo.
La nuova inchiesta
La procura di Castrovillari da tre anni sta cercando di mettere ordine nei pezzi di questa storia. Isabella Internò oggi è una donna di 45 anni, sposata con un uomo che appartiene alle forze dell’ordine e madre di due figlie. «Si è chiusa in un mutismo assoluto» ha detto il suo legale quando, nel 2013, la donna è stata iscritta nel registro degli indagati. L’autista Raffaele Pisano ha più di 75 anni e anche lui si è avvalso della facoltà di non rispondere. Ilbrigadiere Barbuscio è morto pochi anni dopo Bergamini. Gli atti della nuova inchiesta sono secretati ma, intervistati dal Quotidiano della Calabriagià un paio di anni fa, i medici legali incaricati di esaminare i reperti biologici del calciatore avevano parlato chiaramente: «Non abbiamo scoperto la luna, era già tutto scritto nella perizia di Avato», ha detto Roberto Testi; «allora nessuno l’ha mai letta bene», ha ribadito Franco Bolino.
La mancanza del diritto alla verità
«Quando penso a mio fratello la prima immagine che mi viene in mente è il suo sorriso, la sua voglia di vivere», confida Donata. Tra lei e Denis c’erano solo 16 mesi di differenza, oltre che fratello e sorella erano amici. «Siamo cresciuti insieme, dormivamo nella stessa camera, la sera da piccoli dopo il telegiornale facevamo degli spettacoli casalinghi per i nostri genitori e i nostri nonni: imitavamo i cantanti, loro ridevano», ricorda. Ai suoi figli che da bambini le chiedevano come fosse morto lo zio e perché, Donata all’inizio non sapeva rispondere. Poi per anni ha ripetuto loro: «Stiamo cercando la verità, noi eravamo lontani quando è successo». «Il dolore per una morte è un conto, essere privati di un diritto un altro – conclude oggi –. Messe insieme le due cose rendono la vita invivibile, un inferno». Intanto l’orologio senza graffi di Denis continua a ticchettare.