«Siate sempre capaci di sentire, nel più profondo, qualunque ingiustizia
commessa contro chiunque, in qualunque parte del mondo»
Ernesto Guevara de la Serna,
(Rosario, 14.05.1928 – La Higuera, 9.10.1967)
Le parole che avete appena letto non sono retoriche. Non si tratta del classico ritornello, utile solo a far da apriscena ad una melensa dialettica; né tantomeno d’un facile stornello di morale comune, cui far fede nei momenti bui, o da portare fieramente scritto e posticcio, sulle magliette, per ricordarcisi una tantum della propria coscienza etica.
Si tratta d’un grido. Anzi, del grido: quello, strozzato in gola, di tutte le persone e le famiglie che ne hanno subito uno, di grosso torto. Molte di loro li soffrono, e li subiscono, in silenzio, abbandonate dalla società e dalle istituzioni. In poche, invece, altrettanto (se non più) dignitosamente, decidono di lottare fino in fondo per quelle verità: ma si tratta di processi che durano, e coinvolgono vite intere, spesso apparentemente interminabili. E la cui luce, in fondo al tunnel, è sterile come quella d’una fiammella, attenuata dal pesante alito dell’ingiustizia.
Ma non sempre gli ignobili venti sono sufficienti ad estinguere una fiamma. Anzi. Quando a soffiare sul fuoco sono in tanti, e lo fanno con la passione di chi pretende d’esser risarcito, la fiammella non può che inebriarsi e diventare un divampante falò, sufficiente ad illuminare anche la più cupa delle ingiuste notti.
Una notte talmente lunga, ed iniqua, da durare anche 24 anni.
Nel lungo corso della suo rutilare, il mondo del calcio s’è spesso tristemente congiunto a vicende che l’hanno attraversato solo in maniera trasversale. Il doping, le crisi societarie, gli scandali e la corruzione l’hanno man mano dilaniato, consentendo a noi appassionati di poterne godere quasi esclusivamente in maniera atipica, e commisurata ai pochi secondi in cui la palla rotola in rete.
Sono tante, e diverse, le storie che raccontano dei protagonisti del pallone. Tantissime cominciano in uno sterrato campetto di periferia, a mangiar polvere e sudare fatica, e finiscono con l’esasperazione dei muscoli dell’avambraccio, protesi verso l’alto, a sorreggere il dolce peso d’una Coppa, immersi dalla gioia della folla e dai sorrisi dei compagni. Questa comincia sì, come molte, in periferia, ma finisce in una piazzola di sosta stradale: tra le lacrime d’un popolo intero, e le sue tante, troppe, ambiguità. Ma è una fine solo apparente, perchè è in quel momento che la partita diventa un’altra, completamente diversa.
Che dura quanto la precedente, e che viene giocata non più sul selciato o sull’erbetta d’un campo da calcio, ma nelle aule dei tribunali, nelle segrete stanze delle forze dell’ordine, e nei drammatici ricordi di chi, quella storia, proprio non può dimenticarla. Perché non bastano né il tempo, né le ingiustizie, per quanto sconfinate entrambe, a cancellare la storia d’un ragazzo di 27 anni – prima che un grande calciatore -, morto ammazzato sulla statale 106 Jonica. Perché questa è una di quelle storie che non si dimentica: soprattutto adesso che sembra esser arrivata ad una svolta. Dunque, se ancora non la conoscete, prendetevi mezzora, e ascoltatela bene, perché è giusto che tutti sappiano e ne parlino a loro volta, contribuendo a divulgare ciò che alcuni, in passato, non hanno voluto raccontare.
Perché questa è la storia di Donato Bergamini.
Donato ‘Denis’ Bergamini, in campo con la casacca rossoblù – photocredits: Nunzio Garofalo, per gentile concessione
Il calcio, disse qualche anno fa Bill Shankly, è come un pianoforte. In otto se lo caricano in spalla, e solo in tre sanno suonare quel dannato strumento.
Donato Bergamini (Argenta, FE, 1962), è uno di quelli che, quando gioca a pallone, fa, e bene, entrambe le cose. E’ un centrocampista eclettico, polmonare, con ottima visione di gioco, piede sagace e sapienza tattica, assai dedito al sacrificio: uno di quei calciatori cui gli allenatori non rinuncerebbero mai, e di cui fanno presto ad innamorarsi. Perché non ci si può non innamorare, non solo sportivamente, di quelli che – come canta Ligabue – passano la vita a giocare generosi: e Donato è uno di questi.
A proposito: chiamatelo, se volete, Denis. Già, perché quasi tutti lo chiamano così. Prima di nascere sua madre legge su un giornale quel bel nome franco-anglofono, se ne innamora, e decide che sarà quello che darà a suo figlio. Quando il bimbo nasce, quindi, papà Domizio va all’anagrafe, e chiede di chiamarlo proprio così: ma all’epoca i primi nomi di derivazione straniera per bimbi dalla cittadinanza italiana erano vietati – la cosa divenne possibile solo dal ’66 in poi – e quindi Domizio, che ha già una splendida figlia di nome Donata, senza pensarci troppo, comunica al responsabile dell’ufficio che il suo secondogenito si chiamerà con lo stesso nome della sua sorellina. Ecco perché Denis, last minute, in quella mattina di settembre, nell’ufficio anagrafe di Argenta, diventa Donato. Ma Donato è Denis per tutti, familiari e non, tanto che sarà lo stesso ragazzo, molti anni dopo, a dichiarare ai familiari che, prima o poi, avrebbe voluto cambiarlo. Ma non avrà il tempo di farlo.
Donato è Denis anche per gli amichetti con cui gioca a pallone, tra le strade di Boccaleone. Il fisico, certo, non sta dalla sua parte. Da ragazzino è esile, snello, ma rapido e sgusciante. Il cuore ed il talento, d’altra parte, non hanno involucro che li possa contenere: ed è per questo che, già a 15 anni, Donato si fa notare nelle giovanili dell’Argentana. Il passaggio in prima squadra è fisiologico ed innocuo, così come quello all’Imolese, nell’ ’82, ed al Russi, in serie D. Quando ha 23 anni, invece, è il Cosenza, che milita in C1, ad accorgersi di lui.
E’ una squadra ed una realtà nuova, quella, per Donato. Gli si chiede di spingersi sino all’estremo Sud della penisola, là, dove la realtà è molto diversa da quella romagnola, e la distanza che lo separa da famiglia e amici è, per la prima volta, così ampia. Ma Denis accetta con entusiasmo e trasporto quella proposta: d’altra parte il salto di categoria, e con esso quello professionale, è notevole quanto quella distanza. E le ambizioni del Cosenza, reduce da due settimi posti consecutivi in C, sono anche le sue: diventare grandi, insieme.
Undici del Cosenza ’86-’87. Bergamini, accosciato, secondo da destra – photocredits: Nunzio Garofalo, per gentile concessione
Denis diventa sin da subito un punto fermo dei lupi, ed intorno a lui i rossoblù costruiscono un grande centrocampo, che nella stagione ’87-’88, con la fiera casacca numero ‘8’ sulle spalle, spinge Bergamini ed il Cosenza sino alla vittoria del campionato ed allo storico ritorno in B, dopo un, infinito, quarto di secolo d’assenza. Bergamini diviene presto uno degli idoli della squadra. La passione con la quale interpreta il suo ruolo in campo, quello di imprescindibile baluardo della mediana, la dedizione con cui veste la casacca, e la vicinanza emotiva agli appassionati ne fanno uno dei rossoblù più amati dai tifosi . E lui, con altrettanto trasporto ricambia l’amore della città, come ci racconta, in quest’intervista, uno degli storici capi ultras rossoblù dell’epoca, Sergio Crocco, tra i più vicini alla squadra ed alle sue vicende.
Sportivamente le cose vanno altrettanto bene. Denis è stimatissimo da tutti i suoi tecnici, e già nel suo primo campionato rossoblù, l’ ’85-’86, incasella 24 presenze. E l’anno successivo, difatti, la crescita sua – e della squadra – non s’arresta: in 28 partite mette a segno anche due gol, e si pone al centro del progetto tattico del subentrato Gianni Di Marzio – papà del noto giornalista Gianluca -, che legherà il suo nome in modo indelebile alla storia del Cosenza Calcio. La squadra gioca un buon campionato, ma non va oltre il 4° posto nel girone B della Serie C1. Ma i trionfi, quelli veri, devono ancora arrivare: e sono dietro l’angolo.
Tifosi rossoblù dell’epoca in trasferta a Trieste – photocredits: Steven Crocco, per gentile concessione
Di Marzio, l’anno successivo, riparte dallo stesso Denis. E con lui, in squadra, ci sono anche l’attaccante Lucchetti, il terzino Lombardo, il trequarti Urban, il caro amico, e portiere, Simoni ; ed un futuro campione d’Europa (Juventus, ’96) come Michele Padovano, compagno di stanza e molto legato allo stesso Bergamini, tanto da chiamare poi suo figlio proprio ‘Denis‘.
La cavalcata è clamorosa e vincente, e culmina in quel di Monopoli, il 5 giugno 1988, dove, grazie al pari, il Cosenza di Denis e Di Marzio conquista la promozione aritmetica dei lupi, al cospetto di oltre 10mila tifosi, giunti da Cosenza per festeggiare la storica Serie B. Le istantanee dello stesso Bergamini, portato in trionfo dai festanti cosentini, entrano prepotentemente nella memoria cittadina: ma la corsa verso il successo non è ancora finita: anzi.
Pochi mesi dopo arriva prima il momento dell’esordio di Denis in B (Cosenza-Genoa, 0-0) e poi quello del suo primo ed unico gol tra i professionisti, contro il Licata. Un brutto infortunio – Bergamini si rompe una gamba – lo tiene fuori per metà stagione, ma la tenacia, il suo talento cristallino, misto alla capacità di adattarsi a molteplici ruoli (centrale, ma anche esterno nel 4-4-2) ed al suo elevato rendimento, vengono notate anche da squadre ben più blasonate, come il Parma e la Fiorentina (in cui gioca Roberto Baggio), che più volte proveranno, invano, a convincerlo.
E’ il 1988-’89, e quella che sarà poi, tragicamente, l’ultima annata intera della sua carriera vede in panca Bruno Giorgi, futuro mister di Fiorentina, Genoa e Cagliari. L’annata comincia in crescendo, ma finisce malissimo per i calabresi: alla fine del campionato il Cosenza è la squadra che vince più partite, ma chiude solo al 4º posto, ex aequo. A solo un punto dal terzo, ed alla pari di Reggina e Cremonese. Per la – famigerata, e nuova, perché appena introdotta – classifica avulsa dell’epoca, però, quella collocazione significherà solo sesta piazza, ed esclusione dagli spareggi, e col più atroce dei crucci: coi 3 punti a vittoria (all’epoca erano ancora 2) quella squadra sarebbe stata promossa in quanto, solitaria, terza in graduatoria.
Ma l’estromissione dalla storica possibilità di salire in A – traguardo mai raggiunto dai rossoblù – è solo antipasto e minore dei mali di una delle annate peggiori della squadra, e della città. Il 18 novembre del 1989, difatti, proprio il cadavere di Bergamini viene ritrovato sulla strada statale 106 Jonica, nei pressi del piccolo Comune di Roseto Capo Spulico, ad alcune decine di chilometri dal centro città. Non era mai successo, prima d’allora, che un calciatore, nel pieno dell’attività agonistica, arrivasse a togliersi la vita: almeno questo raccontano i media, già pochi minuti dopo il decesso. Ma la vita, a Bergamini, fu qualcun altro a toglierla.
Bergamini, in curva, tra i tifosi che lo amavano (e lo amano ancora) – photocredits: Nunzio Garofalo, per gentile concessione
Denis, stando a quanto la giustizia ripete ormai da decenni, sarebbe morto perché gettatosi sotto l’autotreno condotto da tale Raffaele Pisano, a sua volta imputato di omicidio colposo, e poi assolto dal pretore di Trebisacce «per non avere commesso il fatto», come confermato successivamente dalla Corte d’appello di Catanzaro. Secondo le forze dell’ordine, difatti, Bergamini si sarebbe suicidato, e per motivi ancora oggi non meglio decifrati.
Il tutto, peraltro, davanti agli occhi esterrefatti della sua (ex) fidanzata Isabella Internò, con lui a bordo d’una Maserati biturbo munita di radiotelefono, prima appartenuta a un noto pregiudicato cosentino dell’epoca. Ma le domande che familiari, amici, compagni, tifosi, città ed (alcuni, pochissimi) inquirenti si pongono sono troppe. La versione della ragazza, in primis, non convince nessuno: la giovane studentessa rendese sostiene che sia stato Denis a chiederle prima di accompagnarlo sino a Taranto (da dove peraltro non è possibile per i civili imbarcarsi), e poi di fuggir via – per motivi improponibili – dal Paese insieme; e che sia stato lui stesso, di sua iniziativa, e a margine del suo rifiuto, ad uccidersi, buttandosi sotto – “come se fosse un tuffo”, racconterà la giovane – l’accorrente mezzo pesante.
Chiesa di Piazza Loreto, Cosenza. A novembre del 1989 vi si tennero i funerali di Donato – copyright Fantagazzetta
Ricostruzione farraginosa e, suppongono alcuni, non veritiera. Anche perché Denis, all’epoca, stava vivendo il periodo migliore della sua vita: sia personale, che professionale. Sportivamente aveva la concreta possibilità di giocarsi i migliori anni della sua carriera in serie A, e proprio per questo motivo la società rossoblù l’aveva vincolato a sé con un contratto importante ed oneroso: 200 milioni di lire annui. Molti, per l’epoca. Sentimentalmente, peraltro, aveva da poco intrapreso un sereno rapporto con una ragazza del nord, che lo rendeva felice e con la quale, come ricorda ai nostri microfoni sua sorella Donata, desiderava costruirsi una famiglia.
Ma c’è dell’altro. Ci sono gli abiti che Denis indossava in quel tragico sabato sera, mai riconsegnati a papà Domizio, che poche ore dopo il funerale li richiede legittimamente e con veemenza, ed al quale viene risposto che “sono già andati all’inceneritore”. Dai funerali di Denis, però, sono trascorse solo pochissime ore.
E non solo. Ci sono le scarpe e l’orologio che Denis indossava quel giorno, neanche scalfiti nonostante i – presunti – ben 60 metri di trascinamento sotto il camion del Pisano.
Così come l’auto di Donato, mai sequestrata, e riconsegnata alla famiglia maniacalmente pulita e traslucida. C’è la serenità di Denis, che solo poche ore prima della sua morte s’era allenato con vigore, rilasciando incoraggianti interviste e mostrandosi, come sempre, motivatissimo prima d’una gara: quella contro il Messina, prevista per il pomeriggio successivo, e che il Cosenza poi vincerà 2-0. Nella penombra d’un San Vito incupito, un clima surreale ed un silenzio inscalfibile.
C’è l’inspiegabile abbandono del pre-ritiro mentre, insieme ai compagni, trascorre il sabato pomeriggio al cinema Garden, e le due indistinguibili sagome che lo “prelevano” dalla sala.
Cinema Garden, Rende (CS). L’ultimo posto in cui fu visto Denis dai compagni, prima della morte – copyright Fantagazzetta
E c’è una lunga serie di misteriose telefonate, fatte e ricevute, da Denis prima della notte di Roseto. Una di queste, in particolare, inquieta Donato e di rimando Domizio, ed arriva pochi giorni prima del 18. Dopo averla ricevuta, Donato diventa stranamente paonazzo e nervoso.
E poi quelle, altrettanto sibilline, che riceve la famiglia – e che racconterà Carlo Petrini (1948-2012), l’ex calciatore maledetto, che si reinventò scrittore, micidiale investigatore e fustigatore per espiare le proprie colpe, nel libro “Il calciatore suicidato”, Kaos Edizioni, 2001 – anche mesi dopo la morte di Donato. Allo stesso Petrini, peraltro, arriveranno dopo la pubblicazione alcune lettere anonime, che innestano nella vicenda anche il coinvolgimento della ‘ndrangheta locale, e che lo indurranno a supporre anche la tesi del traffico di stupefacenti, poi successivamente smentita.
C’è l’assurda ed ambigua vicenda legata al cosiddetto ‘gruppo Zeta’ – la task force dell’Arma che stava indagando con profitto sull’omicidio di Donato – che denunciano un collega per collusione con la ‘ndrangheta, i loro superiori che lo coprivano, e che vengono trasferiti pochi giorni dopo. E dire che la dedizione dei componenti del gruppo aveva positivamente colpito proprio Donata, cui, un giorno, proprio uno di quei ragazzi promise: “Lavoreremo per due cose: la ricerca della verità, e la speranza di riuscire a darle fiducia nelle forze dell’ordine”. Il senso di quelle parole, e delle intenzioni, represse, del gruppo, nella testimonianza esclusiva che ci concede il giornalista Gabriele Carchidi, che ha dettagliato, sul settimanale Cosenza Sport , la storia di Redavid, Citino, Lupo e Greco, e senza il cui pluriennale contributo d’inchiesta, forse, il caso non si sarebbe mai riaperto.
Come non parlare dei rilievi, superficiali e mal svolti, effettuati dalle forze dell’ordine sopraggiunte sul luogo della sua morte. Confusi come i verbali dell’epoca, che non fanno luce sulla presenza fisica né dell’Internò che dell’auto, prima e dopo i fatti. E poi la storia, collaterale ma imprescindibile, di un magazziniere del Cosenza, Alfredo Rende, che prima promette al padre di Donato, Domizio Bergamini, di raccontargli la verità sulla morte di suo figlio, e poi muore incredibilmente, in un altro incidente stradale, sulla stessa Statale Jonica: a pochi metri dalla piazzola dove venne rinvenuto il corpo di Donato.
E c’è l’autopsia del cadavere, svolta ben 50 giorni dopo l’accaduto (ed a seguito della riesumazione), dalla quale si evince che la morte è avvenuta per arresto cardiaco, dissanguamento e schiacciamento del torace, senza segni di trascinamento, né altre ferite. C’è poi, come rivelato di recente da ‘Chi l’ha visto’, anche il cronotachigrafo – che allora faceva da scatola nera – del camion, probabilmente manomesso, e la cui distanza percorsa sarebbe incompatibile con quella dichiarata all’epoca dei fatti.
Posa della lapide in onore di Denis, nel luogo dove morì (Roseto Capo Spulico, CS). Nella foto, tra gli altri, Donata e Domizio Bergamini e Padre Fedele Bisceglia – photocredits: Nunzio Garofalo, per gentile concessione
E, sempre a proposito di quell’automezzo, c’è anche un piccolo giallo riguardante il suo conducente: defunto, per parte della stampa, ma tuttora, pare, vivo e vegeto in quel di Rosarno. Differentemente dal brigadiere Barbuscio: colui che, pochi minuti prima della morte di Denis, fermò Bergamini e la Internò sulla statale per un controllo, e poi si fiondò sul luogo dell’accaduto, raccogliendo informazioni controverse che si ripercuotono sul verbale, in base al quale la Maserati di Denis sarebbe stata, follemente, dotata del dono dell’ubiquità. Perché prima rinvenuta sul luogo dell’incidente, e poi nel bar in cui, pochi minuti dopo, si sarebbe recata la Internò, per informare amici e compagni. Peccato che il gestore di quell’esercizio racconti d’una giovane che si sarebbe recata lì accompagnata da un frettoloso signore con tanto di moglie incinta, ancora non individuato. Una delle prime persone cui Isabella telefona, quel giorno, per avvisare della sciagura, è il tecnico rossoblù Gigi Simoni, futuro vincitore dell’allora Coppa UEFA ’98, alla guida dell’Inter di Ronaldo. E’ lui, nella hall dell’albergo – come ci racconta in questa intervista – ad informare i compagni della morte di Denis.
Decine di testimonianze, insomma, che si intersecano e snaturano vicendevolmente, innescando così il mormorio collettivo, che arriva anche a parlare, talvolta a sproposito, di questioni di totonero correlate alla morte di Donato, delineando i contorni d’una vicenda talmente intricata da divenire presto confusa e indistinguibile.
Denis potrebbe esser stato ucciso, ed il suo corpo trasportato solo successivamente a Roseto Capo Spulico, abbandonato su quella maledetta piazzola di sosta. Magari proprio da una di quelle due persone con cui – come racconterà il suo amico e compagno Lucchetti – quel sabato pomeriggio Denis lasciò il cinema Garden, a pochi passi da casa sua. Insomma, tutta una orribile, e fallace, messinscena: orchestrata da chissà chi, ma soprattutto chissà con quale movente.
Il San Vito, 20 anni dopo, reclama giustizia – photocredits: Mannarino’s photos, per gentile concessione
Nel 1994 la questura di Cosenza, in modo autonomo, chiede la riapertura del caso. A Castrovillari si apre, quindi, un indegine contro ignoti, rubricata prima per omicidio volontario, e successivamente archiviata. Ed il silenzio, assordante ed invadente, perdura quanto i dubbi di tutti coloro, famiglia in primis, che di suicidio proprio non vogliono sentir parlare. Ma di Donato, della famiglia Bergamini, della loro triste vicenda, e del mistero che aleggia intorno ad essa, parlano in pochi. Anzi, in pochissimi.
La stampa ed i media non riescono ad intravedere nella storia d’un calciatore di serie minore che – stando a quanto sostengono le forze dell’ordine, si sarebbe suicidato – motivi per darle risalto. E’ per questo che i pochi che ne parlano predicano nel deserto. Tra questi c’è Oliviero Beha, giornalista d’inchiesta, scrittore e conduttore radio-televisivo. Della cosa parla al famoso ‘Processo di Biscardi’, ma anche, e più volte, nella sua trasmissione radiofonica ‘Radio Zorro’. Un giorno, pur di alimentare l’attenzione colettiva su Denis, propone addirittura al cineasta Francesco Rosi di girare un film che abbia, come soggetto proprio quella storia. Non se ne fece nulla, come racconta lo stesso Beha ai nostri microfoni.
Nel 2001 è proprio il libro-inchiesta di Petrini, di cui parlavamo prima, a riaccendere i riflettori sul caso. Papà Domizio racconta, alle telecamere di “Chi l’ha visto?” e “Senza Tituli”, di una di quelle famose, ed inquietanti, telefonate, che il figlio ricevette cinque giorni prima della sua morte, e cui accennavamo in precedenza .
Il 5 maggio 2009, a Boccaleone, Argentana Russi e Imolese – le società nelle quali Denis aveva militato prima di arrivare a Cosenza – celebrano la seconda edizione del torneo juniores che porta il nome di Denis, e che abbraccia i suoi diversi ritagli del passato calcistico, prima del Cosenza.
Dic. 2009: di fronte al Tribunale di Cosenza ha luogo il ‘Bergamini Day’ – photocredits: Nunzio Garofalo, per gentile concessione
Siamo a fine 2009, invece, quando, nel capoluogo silano, il 27 dicembre, si celebra il “Bergamini day”. L’urlo della folla è, inevitabilmente, “Bergamini vive per noi”. Moltissime sono le persone che si radunano davanti al Tribunale cittadino e poi partono, uniti in un sol cuore, in marcia verso lo stadio San Vito, la cui curva sud, oggi, porta proprio il nome di Denis.
Ingresso della curva Sud dello stadio S. Vito, Cosenza – copyright Fantagazzetta
L’evento viene organizzato per iniziativa, mano ed invito d’un nutrito gruppo di persone, sparse tra Emilia Romagna e Calabria che, pur separate da centinaia di chilometri, sono unite da un solo scopo: quello di rivendicare giustizia, ma soprattutto “Verità per Donato Bergamini”, così come dal nome del gruppo Facebook omonimo che, ad oggi, vede oltre 6400 iscritti.
Nel 2010, proprio a Boccaleone di Argenta, frazione del paese di Denis, il 18 Aprile viene costituita l’Associazione “Verità per Denis”, presieduta proprio dall’amorevole Donata, e che conta oltre 500 tesserati. Un gruppo fatto di splendide persone, che lavora e rivendica da anni la ridefinizione del caso giudizario Bergamini, e – come ci racconta Nunzio Garofalo, vice-Presidente dell’associazione stessa – a sostegno di quanti, accomunati da uno sfortunato destino, necessitano di aiuto. Il web, mediante forum, social network, e blog, non dimentica, anzi: si trasforma in piazza virtuale della memoria, dell’iniziativa e della solidarietà. I ricordi della genesi e dell’evolversi dell’imprescindibile lavoro dell’associazione, dalla viva voce dello stesso Nunzio.
Ed arriviamo a giugno del 2011. Quando ormai da quella notte sono passati quasi 22 anni, la procura di Castrovillari, per mano del procuratore capo Franco Giacomantonio, decide di riaprire l’inchiesta sulla morte di Donato. Il fascicolo viene collegato a quegli accertamenti prima richiesti, e poi arenàtisi, proprio a Cosenza, sette anni prima. L’alacre, lungo e scientifico lavoro di Eugenio Gallerani, legale della famiglia Bergamini, produce un dossier – ben 208 pagine – di rara acutezza investigativa, che convince i giudici, in virtù delle nuove prove, ad aprire un fascicolo per ‘omicidio volontario contro ignoti’.
La palla passa dunque ai RIS di Messina, a cui servono pochi mesi per produrre la loro, attesissima, sentenza. Una sentenza, quella che giunge il 22 febbraio 2012, che per tutti è liberatoria come un prato d’Irlanda, e fresca come una boccata d’aria, dopo 23 anni di atroce soffocamento: quando venne adagiato sull’asfalto della Statale 106, Denis Bergamini, era già morto. E non si trattava di questioni legate al traffico di droga. Perché in quella Maserati, che accompagnò Denis nel suo ultimo viaggio, non c’erano né vani nascosti né reconditi doppifondi.
Perchè il 18 novembre 1989 Donato non si suicidò, nè venne trascinato per decine di metri sotto le pesanti ruote dell’autotreno, come peraltro conferma anche il professor Roberto Testi, incaricato dalla procura di analizzare i reperti conservati al momento dell’autopsia. Anzi, venne ucciso, morendo probabilmente dissanguato, a seguito delle percosse e ripetute violenze di cui riferisce una vecchia perizia del 1990, oggi più che mai attuale, riesaminata dalla Procura, ed, all’epoca, inspiegabilmente non presa in considerazione dagli inquirenti. Nella perizia c’è addirittura scritto che Denis potrebbe esser stato evirato, come nel più allucinante ed efferato degli omicidi passionali. Il procuratore di Castrovillari, però, frena, e prosegue le sue indagini.
Fino ad oggi.
A stretto giro di posta, difatti, la Procura renderà noto ciò che accadde quella notte, ed i nomi delle persone che ha iscritto nel registro degli indagati. E, forse, come presume il Fatto Quotidiano, legittimerà la pista del delitto passionale. Sulla morte di Denis, com’è giusto che sia, è arrivato il momento di far luce.
L’eterea, e chiarificatrice, luce della stessa tenue, ma volenterosa fiammella di cui parlavo all’inizio di questa storia, tante righe addietro. La mai estìntasi fiammella di quelli che, proprio come Donata, hanno lottato, per ben 24 anni, in difesa non della propria verità: ma della verità, e basta.
Quell’unica realtà dei fatti che chiede a gran voce, e da sempre, anche papà Domizio.
“Solo di due cose sono sicuro”, disse il papà di Denis, dodici anni fa, a Carlo Petrini: “La prima è che Denis non si è suicidato, ma è stato ammazzato. La seconda è che la verità sulla morte di mio figlio non la sapremo mai”. Beh, caro Domizio, almeno sulla seconda delle tue certezze, forse, ti sei sbagliato. Perché il tempo della verità sembra essere arrivato, e quello delle ingiustizie finalmente finito.
Ed appena quel momento sarà giunto, il coro, quel coro che da tanti anni i tifosi del Cosenza dedicano rabbiosamente ed incessantemente al loro fratello misteriosamente scomparso, tornerà a risuonare.
Talmente imperioso da divenire un tonante rombo, fragoroso come la verità stessa ed inquietante come il terrore di chi ne comprenderà le conseguenze. I silenzi, d’altra parte, sono fatti per esser rotti. E quando sarà, le urla non saranno più rabbia, e le lacrime non saranno più dolore. Solo gioia e libertà. La stessa gioia e la stessa libertà che trasmetteva in campo, e fuori dal campo, un ragazzo 27enne di nome Denis.
La cui vita, maledizione, è durata quasi quanto il nostro forzato digiuno dalla verità.
«Chi dice la verità, prima o poi, viene scoperto»
Oscar Wills Wilde (Dublino, 16.10.1854 – Parigi, 30.11.1900)
Alfredo De Vuono
Ricordo bene quel giorno, avevo 14 anni, e il mio Messina avrebbe affrontato il Cosenza il giorno dopo. Ci fu un certo impatto emotivo, anche perché Messina e Cosenza erano gemellate a quei tempi e la partita fu giocata in un clima surreale. Spero vivamente che la verità venga fuori, o meglio, sia ufficializzata, dato che i fatti realmente accaduti sembrano abbastanza chiari adesso. Fa ancora più male pensare che questo omicidio (perché di questo si tratta) sia scaturito dall’ignoranza e dalla prepotenza di soggetti meschini che hanno vissuto indisturbati per quasi 30 anni. Ho molta stima per la sorella, Donata, che non si è mai arresa e per l’amore fraterno che prova per Denis che l’ha portata a cercare la verità con tutte le sue forze. Siamo in tanti a sperare che chi ha sbagliato paghi. Un abbraccio alla famiglia Bergamini.