Una giornata campale. Così potrà esser ricordato, per Cosenza, il Cosenza, i suoi tifosi ma soprattutto la famiglia Bergamini, il 15 maggio 2013.
Un tempo, i ‘campi‘, erano i teatri delle più ruvide battaglie tra eserciti che si schieravano e scontravano frontalmente. Nel Rinascimento, poi, la tradizione imponeva ai cosiddetti capitani di ventura di accordarsi preventivamente con il nemico per definire il luogo dello scontro: per l’appunto, preferibilmente un campo fuori dall’abitato, al fine di non coinvolgere i civili. Ma il senso figurativo-connotativo del termine è di molto cambiato, nel corso delle epoche. La giornata campale, così, è presto divenuta sinonimo di lungo lasso temporale, assai denso di impegni, stress, lavoro. E, nella maggior parte dei casi, al termine della quale farsi inebriare dalla soddisfazione per quanto si è dato e, se possibile, anche ricevuto.
18 novembre 1989, Roseto Capo Spulico (CS). Denis Bergamini, eclettico e prestigioso 27enne mediano del robusto Cosenza Calcio dell’epoca, viene rinvenuto cadavere a qualche decina di chilometri dalla città. Suicidio, dicono. Suicidio, sostiene prontamente la stampa. Suicidio, sostiene l’unica testimone oculare dei fatti, la sua ex ragazza Isabella Internò. Non era mai accaduto, prima d’allora, che un calciatore nel pieno dell’attività agonistica, arrivasse a togliersi la vita: almeno questo raccontano i media, già pochi minuti dopo il decesso.
Tutto falso. Almeno così sostiene la famiglia Bergamini: tesi accolta da una piccola parte della stampa e dalla tifoseria. Gli equivoci dialettici, le ambiguità investigative, la palese superficialità con la quale vengono condotte le indagini, i riscontri oggetivi, le testimonianze delle persone (che si intersecano e snaturano vicendevolmente) vicine al ragazzo rimandano tutte nella medesima direzione: Donato – per tutti, Denis – Bergamini, potrebbe esser stato ucciso. Anzi, esser stato suicidato, come racconterà Carlo Petrini (1948-2012), l’ex calciatore maledetto che si reinventò scrittore, micidiale investigatore e fustigatore per espiare le proprie colpe, nel libro “Il calciatore suicidato” del 2001 – anche mesi dopo la morte del giovane di Argenta.
La famiglia non si dà per vinta. Nel 1994 la questura di Cosenza, in modo autonomo, chiede la riapertura del caso. A Castrovillari si apre, quindi, un indegine contro ignoti, rubricata prima per omicidio volontario, e successivamente archiviata. Ed il silenzio, assordante ed invadente, perdura quanto i dubbi di tutti coloro, famiglia in primis, che di suicidio proprio non vogliono sentir parlare. Ma di Donato, della famiglia Bergamini, della loro triste vicenda, e del mistero che aleggia intorno ad essa, parlano in pochi. Anzi, in pochissimi.
Ed arriviamo a giugno del 2011. Quando ormai da quella notte sono passati quasi 22 anni, la procura di Castrovillari, per mano del procuratore capo Franco Giacomantonio, decide di riaprire l’inchiesta sulla morte di Donato. Il fascicolo viene collegato a quegli accertamenti prima richiesti, e poi arenàtisi, proprio a Cosenza, sette anni prima. L’alacre, lungo e scientifico lavoro di Eugenio Gallerani, legale della famiglia Bergamini, produce un dossier – ben 208 pagine – di rara acutezza investigativa, che convince i giudici, in virtù delle nuove prove, ad aprire un fascicolo per ‘omicidio volontario contro ignoti’.
La palla passa dunque ai RIS di Messina, a cui servono pochi mesi per produrre la loro, attesissima, sentenza. Una sentenza, quella che giunge il 22 febbraio 2012, che per tutti è liberatoria come un prato d’Irlanda, e fresca come una boccata d’aria, dopo 23 anni di atroce soffocamento: quando venne adagiato sull’asfalto della Statale 106, Denis Bergamini, era già morto. Perchè il 18 novembre 1989 Donato non si suicidò, nè venne trascinato per decine di metri sotto le pesanti ruote dell’autotreno, come peraltro conferma anche il professor Roberto Testi, incaricato dalla procura di analizzare i reperti conservati al momento dell’autopsia. Anzi, venne ucciso, morendo probabilmente dissanguato, a seguito delle ripetute violenze di cui riferisce una vecchia perizia del 1990, oggi più che mai attuale, riesaminata dalla Procura, ed, all’epoca, inspiegabilmente non presa in considerazione dagli inquirenti. Nella perizia c’è addirittura scritto che Denis potrebbe esser stato evirato, come nel più allucinante ed efferato degli omicidi passionali. Il procuratore di Castrovillari, però, frena, e prosegue le sue indagini.
13 novembre 2012, Cosenza. Allo stadio San Vito è in programma la gara d’andata di Cosenza – Gelbison, valida per il campionato di Serie D. Prima della partita viene ricordato Denis Bergamini, con una stupenda cerimonia alla quale è presente anche Donata, sorella di Denis. Sul campo sfila un gruppo di ragazzi che compone, con dei festanti cartelloni, la scritta ‘Verita’ per Denis’. Dalla curva viene esposto uno striscione: “23 anni di menzogne sono bastati…Verità per Donato”. Lo stadio ribolle di passione, diviso tra il calcio che è, e quello che fu. La parita si conclude con la vittoria degli ospiti per 2-1. Il cammino, però, è ancora lungo, tortuoso e foriero di sorprese. Sia per il Cosenza che per la vicenda Bergamini.
15 maggio 2013, Migliarino, Ferrara. Ore 20. Nella sala civica “Falcone e Borsellino” si attende il convegno “Dai kalashnikov al calcio – I nuovi interessi delle mafie”. Presenti, il magistrato Raffaele Cantone ed il deputato Alessandro Bratti, già membro della Commissione Ecomafie e che lo scorso anno presenta insieme al collega Laratta un’interrogazione parlamentare al ministro della Difesa: questione da dirimere, l’allontanamento e lo scioglimento del cosiddetto ‘Gruppo Z’, la task-force del maresciallo Redavid che lavorava sin dalla sua riapertura al caso Bergamini. Insieme a loro c’è anche Donata, l’amorevole sorella di Denis, fulgido esempio di coraggio e tenacia, che da un quarto di secolo lotta insieme all’Associazione ‘Verità per Denis’ affinché la verità e la giustizia vengano ripristinate e rese note.
15 maggio 2013, Stadio San Vito, Cosenza. Ore 20:45. Nella città della Sila si gioca la finale play off del girone I di serie D. I padroni di casa rossoblù arrivano all’appuntamento in virtù del secondo posto conquistato al termine della ‘regular season’ di D, ed a seguito della vittoria per 1-0 contro la Vibonese nella semifinale della seconda fase. A Cosenza arriva ancora una volta la Gelbison, la squadra contro la quale i rossoblù uscirono sconfitti sei mesi prima, nel giorno della memoria di Denis Bergamini. Serve solo una vittoria, ad entrambe, per superare anche il secondo turno, ed approdare alla terza fase dei play off nazionali di Serie D. Sono le 22 circa.
E mentre a Migliarino il convegno è al suo culmine, il San Vito esplode di passione: al 15′ della ripresa Adriano Fiore – fratello del più celebre Stefano, che quel giorno di sei mesi prima regalò una targa a Donata per omaggiarla del suo coraggio – libera Cavallaro. Quest’ultimo disegna un gran cross al centro per Nicolas Pesce, che colpisce benissimo di testa e insacca sul secondo palo. Il San Vito diventa una bolgia, la partita si indirizza in maniera significativa, considerato anche che gli ospiti sono in 10, e ci mettono poco a crollare definitivamente sotto i colpi dello stesso Fiore e del cannoniere Mosciaro, che portano il Cosenza a giocarsi anche la terza fase stagionale, domenica sera, contro la Casertana. E quando l’arbitro fischia tre volte, il giubilo cittadino – estrinsecato nella frenesia disseminata tra le prossime Via degli Stadi e Viale Magna Grecia – è pari solo all’importanza d’una vittoria che ha il sapore della vendetta. Vittoria e vendetta. Ma non solo in campo.
16 maggio 2013, Castrovillari. Piena notte. Dalla Procura un’indiscrezione, prontamente confermata, cala il sipario sui pluridecennali silenzi e spalanca le porte ad un possibile nuovo proscenio investigativo che può prender forma.
Ad Isabella Internò è giunto un avviso di garanzia, e per concorso in omicidio volontario. L’omicidio, e non il suicidio, finalmente, è quello del suo ex ragazzo, Denis. “E’ stato un miracolo”, commenta a caldo Eugenio Gallerani. E’ soprattutto grazie a lui che i magistrati hanno riaperto un’inchiesta chiusa da oltre vent’anni.
Concorso in omicidio, dunque. Negli ambienti investigativi si fa evidentemente strada l’ipotesi che la giovane ragazza fosse presente, quella drammatica notte, durante l’assassinio – ormai dato per appurato – di Bergamini, il cui esecutore materiale, però, potrebbe essere un’altra (o più) persona/e. Il giorno prima il collega Bruno Palermo su Tuttosport rilanciava una tesi, quella dell’omicidio a sangue freddo ed all’arma bianca, verosimile ed aderente a quella che sembra, oggi, la pista che prende corpo in maniera sempre più saliente: quella passionale.
Niente droga, né totonero, né ritorsioni rispetto ad eventuali amicizie ‘pericolose’ del ragazzo, in quelli che erano gli ambienti pericolosi della Cosenza degli anni ’80. Denis è stato ucciso, da una o più persone, e per motivi non ancora meglio individuati – ma molto probabilmente legati al suo rapporto con la ragazza -, così come gli esecutori dell’efferato assassinio. Gli altri indagati, i nuovi avvisi di garanzia (qualora ve ne fossero) e probabilmente molte altre verità su come morì Denis Bergamini potrebbero esser rese note a breve.
Questione di giorni, forse anche solo di ore. Dopo 24 anni di digiuno dalla verità, possibili omertà, controversie legali e trepidante, illegittima, attesa, ora il tempo che separa le bugie dai fatti sembra finito.
Poi tutto tornerà ad esser limpido, per quanto macchiato perennemente da un quarto di secolo di assurdità. Il cerchio prende lentissimamente la direzione della quadratura ed il destino, a volte molto più equo della vita, ci mette lo zampino. E scorge, in questo 15 maggio 2013, la ‘giornata campale’ di cui parlavo parecchie righe fa.
Il giorno della vendetta rossoblù sul campo, e dei nuovi sogni di gloria giammai dispersi dopo un lungo periodo di appartenenza al sottobosco calcistico. Ma soprattutto d’un’altra vendetta: quella che, si spera, la verità ha finalmente deciso di iniziare a prendersi nei confronti dell’ingiustizia. Come andranno a finire entrambe, però, ancora oggi non è dato sapere: quel che è certo è che continueremo a raccontarvene. Nella memoria, doverosa perché troppo spesso sottaciuta, di un ragazzo, ucciso, di soli 27 anni.
Il cui forzato digiuno dalla verità, dannazione, è durato quasi quanto la vita.
Alfredo De Vuono